Home Eventi Dal 13 al 16 ottobre 2016, a Santa Lucia del Mela, il...

Dal 13 al 16 ottobre 2016, a Santa Lucia del Mela, il Convegno Internazionale di studi “Sicilia millenaria”

0 3563

Santa Lucia Del Mela (Me) – Si svolgerà nella splendida cornice del castello di Santa Lucia del Mela (ME), dal 13 al 16 ottobre 2016, il Convegno Internazionale di studi “Sicilia millenaria: dalla microstoria alla dimensione mediterranea”.

Le quattro giornate, organizzate dall’architetto e studioso Filippo Imbesi, coordinate dal prof. Luciano Catalioto, docente di storia medievale del DICAM (Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne) dell’Università degli Studi di Messina, e promosse dall’Amministrazione Comunale e dall’Assessore ai Beni Culturali di Santa Lucia del Mela, il dott. Rosario Torre, vedranno la preziosa collaborazione ed il supporto di importanti enti di ricerca ed associazioni culturali, tra cui l’Università degli Studi di Messina, l’Università Paris Ouest Nanterre La Défense, l’Officina di Studi Medievale di Palermo e l’Associazione SiciliAntica.

Sessanta i relatori che si intervalleranno, studiosi prestigiosi per un momento di riflessione e ricerca sulla Sicilia. Dalla microstoria, quindi dal particolare, fino all’importanza che l’isola rivestiva nella dimensione mediterranea, bacino di cultura e polo d’attrazione di migliaia di popoli.

L’evento, secondo l’impronta voluta dall’organizzatore, mira anche ad offrire, in una fase di appiattimento culturale piuttosto generalizzato, un momento di seria riflessione sugli sconfinati campi di ricerca propri del territorio siciliano e uno stimolo per un concreto cambiamento di rotta dell’attuale sistema culturale.

Numerosi saranno gli argomenti trattati con impostazione multidisciplinare: arte, numismatica, presenze antiche, storia dell’alimentazione, archeologia, storie di comunità e territori, viabilità antica, restauri e recuperi architettonici, cultura bizantina, sistemi costruttivi, archeoastronomia e simboli, letteratura, famiglie nobili ed infine uno sguardo alla storia e la cultura della bellissima cittadina ospitante Santa Lucia del Mela.

Tra i relatori, si ricorda, lo studioso francese Henri Bresc con una Lectio Magistralis dal titolo “Nel regno di Trinacria. Geografia e storia nell’opera di Giovan Luca Barberi”

Moderano: Maria Caltabiano, Daniele Castrizio, Luciano Catalioto, Alessandro De Angelis, Antonino Pinzone, Francesco Pira, Grazia Salamone, Salvatore Speziale, Anna Maria Urso.

Sarà possibile seguire l’intero evento in diretta streaming su: http://www.innovationtv.it/

PROGRAMMA  E ABSTRACT degli Interventi

1xx  Sicilia Millenaria I

La Locandina

GIOVEDÌ 13 OTTOBRE ORE 9,00

 

INAUGURAZIONE E SALUTI

  • Antonino Campo (Sindaco del Comune di Santa Lucia del Mela)
    • Rosario Torre (Assessore ai Beni Culturali del Comune di Santa Lucia del Mela)
    • Mons. Cesare Di Pietro (Rettore del Seminario di Santa Lucia del Mela)
    • Prof. Mario Bolognari (Direttore del DICAM)

 

ORE 9,45

RESTAURI E RECUPERI ARCHITETTONICI

  • Giuseppe Scaturro – Il castello di Poggiodiana, ieri Misilcassim: dalla storia ai restauri.

Il presente contributo affronta i risultati dell’indagine storico-architettonica condotta sul castello di Poggiodiana presso Ribera. Un’attività che, sulla base di un proficuo connubio tra ricerca storica condotta su fonti archivistiche e analisi critica del manufatto architettonico, getta luce sulle origini storiche di Poggiodiana, ieri “Misilcassim”, e sulle sue vicende costruttive perpetuate attraverso i ripetuti restauri, condotti sulla sua preesistenza, attraverso i secoli.

Vaga, incerta ed avvolta nel mistero era la verità sulla storia di questo manufatto, pressoché sconosciuto a molti. Sensazione avvertita non solamente per l’alone di magia che avvolge generalmente gli antichi manieri, ma, soprattutto, per la totale confusione che regnava a proposito della sua origine e del processo di crescita, rafforzata anche alla luce di due diverse denominazioni individuate: Misilcassim, nome di chiara origine araba e Poggiodiana, attuale appellativo dato alla odierna struttura fortificata. Le ricerche condotte hanno posto finalmente fine ad un secolare “bellum topographicum” sulla identificazione e l’ubicazione della torre medievale di Misilcassim, appurando, definitivamente, che il sito di Poggiodiana è oggi quello che ieri era Misilcassim.

Il casale e la torre che le fonti del XIV e XV secolo chiamavano ancora Misilcassim (Turris Misilcassim, Misilicassini, Menzilcassim: toponimi di chiara origine araba) cambiano denominazione alla metà del Cinquecento. Difatti, in quel periodo, i documenti registrano tale mutazione: si parla ora di “feudum et castrum Misilcassim seu Poggiodiana”. Misilcassim e Poggiodiana sono due toponimi riguardanti due distinte fasi della vita di uno stesso insediamento. Al cambio di denominazione fa riscontro anche una profonda ristrutturazione del castello: il Medioevo viene superato e cancellato tanto nella toponomastica che nell’architettura. E tale mutazione stilistica viene notata con chiarezza attraverso l’analisi della differenza estetica e costruttiva tra la torre cilindrica edificata nel Trecento e la cinta muraria bastionata costruita nel Cinquecento. Dunque, il caso di “Misilcassim seu Poggiodiana” è uno dei non moltissimi esempi in Sicilia di completa ristrutturazione rinascimentale di un fortilizio medievale.

  • Pierpaolo Faranda – Tutela e conservazione di un centro minore: il villaggio delle Acquedolci.

L’intervento proposto si prefigge di ricostruire sinteticamente la gestione del costruito storico della borgata di Acquedolci (Me) attraverso l’utilizzo di fonti archivistiche del XVI secolo, foto storiche e documentazione contemporanea. Dall’analisi della località Marina Vecchia, primitivo insediamento urbano gravitante attorno al Castello Cupane, oggi di proprietà comunale, si procederà con l’individuazione di alcune significative emergenze architettoniche degne di particolare attenzione. La condivisione di tali informazioni (per lo più inedite) sulla cultura materiale esistente in questo territorio dei Nebrodi con un pubblico di “esperti” vuole altresì porre l’accento sulla validità di alcune procedure operative finalizzate al mantenimento dei centri minori e in generale alla tutela del patrimonio urbanistico, architettonico e storico-artistico.

  • Filippo Imbesi – Nuove acquisizioni sulla chiesa di S. Maria dei Cerei di Rometta.

Una delle strutture storico-monumentali più importanti della Sicilia è la cosiddetta “chiesa bizantina” di S. Maria dei Cerei, che si erge, in provincia di Messina, sul principale acrocoro superiore di Rometta.

Le caratteristiche plastico-architettoniche, spaziali e distribuitive del monumento romettese (icnografia a croce equilatera inscritta con esonartece, campata centrale sovrastata esternamente da un prisma ottagonale e da una cupola gradonata, superfici interne coperte con volte a botte e a crociera, archi a testa di chiodo) lo hanno fatto ritenere un prodotto dell’architettura tardo-romana o bizantina (V-VI secolo) avente una primitiva facies legata alla funzione di battistero, terme o martyrium.

Lacune storiche e difficoltà conoscitive, tuttavia, caratterizzano queste considerazioni spaziali e architettoniche, poiché la struttura presenta varie divergenze interpretative ed evidenti intromissioni e ricostruzioni che hanno alterato i livelli di leggibilità.

Per approfondire la conoscenza di questo importante monumento sono state recentemente condotte varie indagini conoscitive che, oltre a restituire importanti informazioni sulle caratteristiche storico-architettoniche dell’originaria struttura, hanno permesso di rinvenire un vano incavato nel basamento roccioso sottostante, posto al centro della struttura e collegato ad un canale rupestre.
Al corpo incavato centrale portato alla luce nelle recenti indagini è sicuramente connessa la primitiva facies funzionale del monumento romettese.

 

VIABILITÁ ANTICA

  • Davide Comunale – «Per viam, viam francigenam». Ipotesi di ricostruzione della viabilità sulla base delle ricognizioni.

La ricerca dello scrivente, ancora in atto, ha come obiettivo lo studio del sistema viario presente nella Sicilia centro occidentale nel periodo che va dal X al XIII sec. d.C., attraverso lo studio degli atti notarili, che menzionano più volte una via denominata “francigena”.

Dall’indagine sta emergendo che gli atti dei notai e delle cancellerie di corte, normanne prima e sveve poi, scrupolosamente annotavano i confini delle donazioni e dei lasciti operati dai nobili o dalla stessa famiglia reale verso istituzioni religiose, conventi e abbazie di nuova fondazione, edificate nell’intento di ricristianizzare una Sicilia per 250 anni in mano musulmana.

Quattro atti, tra la mole di quelli analizzati, riportano il termine “francigena” come toponimo indicante tratti di via sotto il controllo del potere centrale in un arco temporale che coprì circa due secoli. Sebbene il nome possa suonare strano, vista la lontananza da Roma e dalla più famosa Via Francigena collegante le terre d’Oltralpe con la sede dei papi e con i sepolcri di S.Pietro e S.Paolo, il ricorso al termine è indizio di un sistema che, per sinonimia, collegava la viabilità con i cavalieri venuti come mercenari dalla Normandia, insediatisi in Sicilia dopo la cacciata degli Emiri e chiamati appunto “franchi” dalla vulgata.
Il mio contributo propone una metodologia per lo studio della viabilità che riprende il concetto di “archeologia di strada” come spazio indagabile sotto più aspetti, tutti strettamente connessi tra di loro: dalla funzionalità alle opere architettoniche circostanti, dai siti archeologici che costellano l’andamento della via alle strutture di controllo e gestione.

  • Marco Sfacteria – Metodi e tecnologie applicati alla ricostruzione della viabilità antica: il caso della via romana Catania-Agrigento.

La ricerca dello scrivente, ancora in atto, ha come obiettivo la ricostruzione della via romana che, attraversando l’entroterra della Sicilia in direzione est-ovest, collegava Catania ad Agrigento.
Tale strada viene nominata due volte nell’Itinerarium Antonini, ovvero nel percorso definito “A Traiecto Lilybeo (It. Ant. 88,2)” – che dallo Stretto di Messina giungeva all’odierna Marsala – e nel percorso “a Catina Agrigentum mansionibus nunc institutis (It Ant. 94,2)”. Si ritiene generalmente che tale doppia citazione debba ricollegarsi o ad una aggiunta di stazioni lungo il già esistente tracciato (“A Traiecto Lilybeo”) o ad una probabile modificazione del percorso originario della strada che in un dato momento, come suggerisce la presenza quasi esclusiva di nomi di origine prediale, dovette passare attraverso le grandi aziende latifondiste; tale modifica viene fatta risalire al potenziamento del “cursus publicus” che interessò la Sicilia nel IV sec. d.C.

Lo studio della viabilità romana in Sicilia è reso particolarmente difficile dalla quasi totale mancanza delle evidenze archeologiche. Per quanto riguarda la via Catania-Agrigento l’identificazione del tracciato risulta ancora più problematica per la mancanza di indicazioni relative a città intermedie e per la difficoltà di individuare con precisione le stazioni nominate, in quanto facenti parte di estesi latifondi.
Alla luce di tali difficoltà, un approccio multimetodologico che ha visto l’affiancamento delle geotecnologie alle metodologie classiche dell’archeologia dei paesaggi, ha consentito di acquisire nuovi dati e proporre alcune ipotesi relativamente all’area di strada ed alle “mansiones” a questa connesse.

 

  • Giuseppina Schirò – Aree funerarie e viabilità nel territorio dell’«Ecclesia Agrigenti».

Si presentano i risultati dell’indagine condotta nel territorio della diocesi di Agrigento, estesa fra il corso del fiume Platani ad Ovest e del Salso ad Est, nell’arco temporale compreso fra le prime testimonianze cristiane ed il pontificato di Gregorio Magno (fine VI-inizi VII sec.).

All’interno di questo quadro cronologico, a partire dalla realtà funeraria (interdipendente con i contesti insediativi e la viabilità), si cercherà di comprendere la natura e l’evoluzione del popolamento e della cristianizzazione delle campagne siciliane.

 

ORE 15,30

COMUNITÁ E TERRITORI

 

  • Salvatore Alberti – Federico II di Svevia a Milazzo: un progetto per il territorio. [Comunicazione] Antonino Quattrocchi – La terra e il casale di Sant’Andrea di Scannacavallo nel piano di Milazzo tra il XII e il XIV secolo.

Avvalendomi delle fonti documentarie, oltreché dei risultati di indagini sul campo, sono riuscito ad individuare nell’antico Piano di Milazzo ed esattamente nei pressi dell’attuale paese di Bafia (Messina), il sito del casale normanno, all’epoca una terra, di Sant’Andrea, in seguito denominato di “Scannacavallo” a ricordo della sua assegnazione nel primo periodo degli Altavilla ad un conte longobardo di Calvi, oggi Calvi Risorta (Caserta).
Del menzionato centro abitato – le cui origini, per la ricchezza mineraria delle sue contrade, vanno ricercate quantomeno nel periodo bizantino – si ricostruiscono, inoltre, le vicende successive riferibili al periodo svevo, angioino ed aragonese e nel contempo si definiscono i limiti territoriali rimasti pressoché immutati fino alla fine del feudalesimo, che in queste aree dei Peloritani si è protratto fino ai primi decenni del XX secolo.

  • Giuseppe Finocchio – Sopravvivenze e ricordi dell’architettura medievale a Messina: indagini su un possibile tessuto urbano.

Facendo tesoro delle testimonianze iconografiche e delle persistenze nel tessuto urbano della città e dell’immediato suburbio, e seguendo anche tracce letterarie e documentali sulla scia di un saggio di Salvatore Tramontana (“Antonello e la sua città”), si proverà a ricucire una linea che racconti la Messina di oggi (scampata solo per pochi stralci alla furia degli eventi naturali ed antropici) sotto la lente di una città medievale fiorente, popolosa e con importanti consistenze urbane dell’età normanna, ammaliata da sentori arabi, e fino al tardo medioevo aragonese. Saranno trattate non solo le tracce religiose, ma soprattutto le evidenze, talvolta ricche di suggestioni, dell’edilizia civile di tipo abitativo. L’impronta del Medioevo servirà a rendere l’indagine insolita e suggestiva.

  • Piero Gazzara – Consuetudini e privilegi della terra demaniale di Rometta nel diploma del 1323 di re Federico III.

Tra le pergamene dell’archivio riguardante il regno di Federico III, Re di Sicilia, mancava fino al 1998 quella relativa al “Diploma dei Privilegi” concessi nell’anno 1323 alla terra demaniale di Rametta (oggi Rometta). Del documento pergamenaceo si conoscevano solo menzioni sulla sua esistenza presso l’archivio del locale municipio, mentre per il contenuto si rifaceva alle pagine di un documento comunale del 1924 che eccezionalmente riportava un’essenziale sinossi. Oggi siamo in grado di esaminare integralmente il provvedimento di concessioni, emanato dalla corte di Re Federico il 13 ottobre 1323, settima indizione, a Messina, per mano del cancelliere Federico de Incisa di Sciacca. Esenzioni varie ed estensioni delle immunità previste in tutto il regno dai cittadini messinesi, sono alcune tra le disposizioni estese alla terra fortificata di Rametta e ai suoi abitanti. Di particolare interesse è uno speciale provvedimento per favorire il ripopolamento del territorio, reso insicuro considerati i guasti apportati dall’esasperata guerra che contraddistinse il lungo regno di Federico. In una guerra che mise in ginocchio l’economia del Regno colpendo maggiormente quei centri fortificati, strategicamente importanti per entrambi i contendenti in campo, le concessioni a diverse terre e città del regno, quali Trapani, Patti, Castroreale e Lentini, assumono nelle intenzioni della corte siciliana una boccata d’ossigeno per le già smagrite casse cittadine, oltre a rappresentare un sicuro incentivo per far ripartire l’economia di vaste aree del regno interessate direttamente dalle operazioni belliche.

 

  • Filippo Sciara – I luoghi di caccia di Federico II imperatore nel territorio messinese.

Con la sua catena montuosa dei Nebrodi e Peloritani, molto ricca di boschi e di grossi animali da selvaggina (come cervi, daini, caprioli e cinghiali), il territorio messinese fu un’area di caccia preferita dai re normanni e svevi del regno di Sicilia.

Nel luglio 1097 abbiamo notizia che il conte Ruggero I si trovava a caccia sul monte dei Linari. Sullo stesso monte, troviamo, sempre a caccia, il figlio re Ruggero II, rispettivamente nel 1142, 1143 e 1144, spesso in compagnia di nobili e alti dignitari della Corte Regia.
Ruggero II, nel maggio del 1142, insieme a vari dignitari, si recava a cacciare sul monte dei Linari.

Luogo di partenza di queste battute di caccia reali sul monte dei Linari fu, molto probabilmente, il palazzo normanno di Caronia, che nel 1150 venne detto da Idrisi “di nuova costruzione”. Significativa è la presenza, nei pressi di Caronia, di una contrada indicata con il toponimo Lineri. Troviamo lo stesso toponimo (come contrada, valle e torrente Lineri) nei pressi di monte Soro (1847 m.); ciò ci consente di identificarlo con il monte dei Linari del periodo normanno.

La riserva dei Linari, indicata nei secoli successivi come “foresta magna Linaria” o “Lignaria”, costituiva la più vasta riserva venatoria del “Regnum” e aveva il suo centro nel monte Soro e si estendeva tra gli attuali territori di Caronia, Troina, Randazzo, Taormina e Santa Lucia del Mela.

Una riserva di caccia reale normanna, sita presso Patti, è ricordata in un documento di re Ruggero II del 1133; un’altra presso Capizzi fu menzionata nel 1168.

Molto più ricca è la documentazione sui luoghi di caccia reali del periodo Svevo.
Nel settembre 1197 si ha notizia che l’imperatore Enrico VI è impegnato in una battuta di caccia nei pressi di Messina, in seguito alla quale trovò la morte.

Nel periodo di Federico II imperatore erano presenti le seguenti riserve di caccia reali: la foresta di Messina, il parco di Milazzo, la riserva di Pace di Milazzo (oggi del Mela), il bosco di Bonipari con il casale del Vescovo (che dicevasi Belvedere) presso Montalbano, il bosco di Patti e la grande foresta Linaria o Lignaria “in quo imperator fecit construi domos”. Dimore di caccia pertinenti a queste riserve, oltre al ricordato palazzo di Caronia, furono il “solacium regis Castaneti” presso Messina, il “palacium parci” di Milazzo, il palazzo di Patti posto vicino alle mura cittadine, il castello di Montalbano e il casale di Santa Lucia (oggi del Mela). Quest’ultimo, istituito da Federico II nel 1249, viene indicato come “casale solatium utile” e ricevuto in permuta dal vescovo di Patti, al quale era stato donato in cambio il casale di Sinagra, giudicato non adatto come sollazzo, cioè come residenza di caccia reale.

  • Giuseppe Campagna – La comunità ebraica di Castroreale nel Quattrocento.

La Sicilia, dalla tarda antichità fino al 1492, vide la presenza di un numerosa minoranza ebraica, e durante il periodo in cui gli ebrei vissero sull’isola fu osservato e mantenuto uno standard (sia pure ridotto) di “convivenza” con la vasta maggioranza cristiana che li circondava. Gli ebrei e gli altri abitanti (musulmani prima della conquista normanna, e ancora sino al XIII secolo greci e latini) vivevano in stretta prossimità e ciò riguardava spesso anche i rispettivi luoghi di culto. Gli ebrei, stanziati in tutti e tre i “valli” nei quali era ripartita l’isola, risiedevano in particolar modo nelle città costiere, soprattutto in quelle principali. Parecchie comunità erano raggruppate intorno ai grandi centri urbani e solo poche erano situate in aree periferiche, anche se non del tutto isolate, e molte di quelle dell’entroterra si trovavano lungo le principali linee di comunicazione.

La presenza di una comunità ebraica nella “terra” demaniale di Castroreale è testimoniata da varie fonti sul finire del XIV secolo.

Fonti notarili, per lo più inedite, intrecciate con i documenti pubblicati nelle raccolte dei fratelli Lagumina (Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia) e di Shlomo Simonsohn (The Jews in Sicily) consentono, con taglio microstorico, la ricostruzione di elementi della vita della comunità giudaica castrense nel XV secolo, dall’analisi dell’insediamento a fattori di rottura della pacifica convivenza con la maggioranza cristiana della popolazione, non tralasciando l’analisi del ruolo socio-economico svolto dagli ebrei locali e le persistenze giudaiche a seguito dell’espulsione con il fenomeno del neofitismo.

 

  • Alessandro Fumia – I Variaghi a Messina.

La storia di una grande e antica città, Messina, marca il tempo attraverso le sue glorie che illuminano un passato importante.

Durante la dominazione araba in Sicilia, in una delle tante incursioni degli imperiali bizantini che tentavano di strappare l’isola all’islam Kalbita, giunsero in quelle latitudini guerrieri della croce al seguito di truppe costantinopolitane piuttosto feroci. La loro nomea era proporzionata alle loro gesta, e la grandezza dei guerrieri accresceva nell’immaginario collettivo la loro potenza.

Il loro condottiero, un monumento alla storia dei paesi scandinavi, ancora oggi ricordato come eroe nazionale, si distinse in queste contrade, e a Messina compì un vero miracolo militare, tanto da essere annoverato nelle saghe dei cosiddetti vichinghi orientali. Harold Hardrara, fratello di secondo letto di Olav il santo, forse il più grande guerriero di tutti i tempi, mise la sua spada al servizio degli imperiali di Costantinopoli e il suo cuore al servizio della causa del Signore Dio. A Messina il suo trionfo fu clamoroso tanto da essere ricordato per secoli in alcune delle più prestigiose cronache cavalleresche.

La sua importante presenza sembra smarrita fra i racconti dei più moderni cronisti, eppure il suo ruolo fu strategico in favore della città dello stretto, al punto che i Normanni governarono il suo caposaldo scambiandosene il titolo prima di conquistare Palermo.

I successori dei principi normanni seguirono le orme dei loro padri fino agli Svevi, che alimentarono il ricordo di una signoria, quella di Messina, origine e vanto di una piazza d’armi, liberata dal grande condottiero dei vichinghi dell’est, dall’anno del Signore 1042 all’anno 1057.

La ricostruzione storica di una discendenza reale a Messina, quasi sconosciuta in Occidente, getta le basi verso nuove osservazioni e rende possibile colmare alcune lacune, inspiegabili in rapporto alle dinamiche di governo del regno di Sicilia fin dalle sue origini.

  • Giuseppe Ferlazzo – Dal documento alla mappa: alcuni spunti sul territorio di S. Maria di Licodia.

Il contributo nasce dalla consapevolezza che il paesaggio, caratteristica di un territorio, è il risultato dell’azione congiunta di uomo e natura, i quali concorrono a renderlo unico. Nel caso di S. Maria di Licodia, si è cercato, partendo da alcune fonti documentali, di ricomporre i pezzi di un puzzle che possono fornirci alcuni spunti di ricerca interessanti nella ricostruzione delle dinamiche che hanno interessato questo territorio.

Le fonti prese in considerazione sono due:

– la prima è costituita da un atto di donazione del 1143 in cui Simone del Vasto, conte di Policastro e Paternò, dona all’abate Geremia una vasta fetta di territorio in cui costruire un monastero ed un casale, dando così vita al primo nucleo insediativo dell’odierno abitato di Licodia;

– la seconda è rappresentata da una mappa del ‘600, conservata presso la biblioteca del monastero benedettino di S. Giovanni La Rena a Catania, in cui abbiamo un primo schizzo del territorio di S. Maria di Licodia con l’indicazione dei confini e dei principali assi viari.

Merita attenzione, a margine della seconda mappa, la presenza di alcune parti dell’atto di donazione di Simone del Vasto. La mappa seicentesca dell’area riporta il testo dell’atto di donazione della metà del XII sec. al fine di utilizzarlo come riferimento topografico nella realizzazione della mappa stessa.
Pertanto, si è voluto comparare le due fonti per porre su una cartografia moderna i principali elementi topografici, al fine di creare una visione d’insieme del territorio intorno al Seicento, utile per futuri approfondimenti e per ricerche nel comprensorio.

 

 

CULTURA BIZANTINA

VENERDÌ 14 OTTOBRE – ORE 9,30

  • Salvatore Giglio – Storia di una piccola λαυρα bizantina in terra siciliana: il cenobio di San Salvatore della Plaga presso Francavilla di Sicilia.

Con la venuta in Sicilia dei Normanni, emersero una serie di istanze cristiane latenti e mai sopite sotto il governo arabo, che nel complesso finirono per essere incardinate nella nuova politica di governo e di controllo del territorio messa in atto dai nuovi conquistatori, basata, oltre che sugli elementi del potere politico-militare e su una inedita amministrazione burocratica, soprattutto su una fitta rete di fidate cellule monastiche dislocate in punti strategici del territorio. Queste ultime, costituite da monaci di sostrato linguistico e culturale greco-bizantino, si trovano ad essere incapsulate in una struttura ecclesiale con componente dominante latina.

E’ questa la storia di un piccolo cenobio di monaci siculo–greci, come tanti nel Val Demone, nel periodo ancora oggi oscuro della transizione fra Islamismo dominante e restaurazione cristiana e della sua difficile sopravvivenza culturale all’interno dell’ufficialità ecclesiale latino–romana del tardo medievo.

  • Alessio Mandanikiotis – Innografia bizantina nella Sicilia medievale.

Tra i materiali letterari scampati al naufragio della storia antica non possono essere trascurate le pregevoli composizioni poetiche e religiose uscite dall’ispirata vena di vari autori medievali siciliani.

Tra di essi spicca il monaco greco-siculo Giuseppe, considerato il più prolifico autore ecclesiastico del mondo bizantino e l’innografo principale della chiesa cristiana ortodossa. “Schevofilace” (tesoriere) di S. Sofia, il monaco Giuseppe compose centinaia di “Canoni” celebrativi per la Liturgia delle Ore, volti soprattutto a solennizzare memorie e festività dell’anno ecclesiastico bizantino.

Il contributo tratterà le vicende umane e le produzioni di questo importante autore ecclesiastico e di altri innografi della Sicilia medievale.

 

ARCHEOLOGIA

  • Giovanni Di Stefano e Angelica Ferraro – Uomini senza teste. Sepolture parziali e secondarie in età arcaica e nell’età del bronzo in Sicilia.

L’uso nella Sicilia antica di seppellire inumazioni di individui frazionati è una pratica che le recenti scoperte archeologiche stanno evidenziando.

Nell’area della Sicilia sud-orientale alcuni casi sono accertati sia per l’età arcaica (località Castiglione, entroterra di Camarina) che per l’antico bronzo (località Poggio Bidini, località Paolina).

Nel villaggio siculo di Castiglione, nel cimitero dei greco-camarinesi, è stata scoperta una tomba a fossa (T 12) con sei crani disarticolati dagli scheletri post-craniali e poi disposti scenograficamente.
Nel villaggio preistorico di Poggio Bidini due crani disarticolati dagli scheletri post-craniali furono conservati in una capanna. Nella necropoli dolmenica di località Paolina furono seppelliti gruppi di crani, all’interno di sepolture realizzate con lastre di roccia.

All’origine di queste usanze funerarie che prevedevano il frazionamento dei corpi è probabile l’apporto ideologico del ruolo degli Antenati nell’ambito delle pratiche di sepoltura.

 

  • Michele Elia – Ricognizioni archeologiche nelle terre di Ducezio: la montagna di Caltagirone e Altobrando.

Oggetto di questo studio è l’analisi storico–archeologica del territorio compreso nella metà orientale della tavoletta IV NO del F.273 (Monte Frasca) dell’Istituto Geografico Militare (I.G.M.), rientrante amministrativamente nei territori dei Comuni di Caltagirone e di Mineo.

L’analisi sul terreno ha permesso di delineare un quadro generale degli insediamenti e della topografia antica della zona, anche se i dati raccolti attestano solo in parte le presenze che dovettero succedersi sul territorio. Infatti, la ricognizione può essere condizionata da vari fattori, tra cui le condizioni di “visibilità” e di “leggibilità” del terreno. Per tale motivo, insieme alla carta archeologica, è stata elaborata una “carta della visibilità”, evidenziando le caratteristiche del terreno durante la ricognizione. In tal modo, l’assenza di dati archeologici nella carta non può essere interpretata come “non esistenza”, ma soltanto come conseguenza della “non visibilità” al momento della ricognizione.

  • Età preistorica e protostorica.

Le testimonianze più antiche risalgono agli inizi dell’antica età del Bronzo (2.300 a.C. circa).
In questo periodo si assiste alla “nascita” di molte necropoli, di entità variabile, condizionate soprattutto dalla geomorfologia del territorio che, data la presenza di vasti banchi di roccia calcarea, costituiva una zona ideale per la “creazione” dei vari sepolcri. Si tratta di tombe a grotticella artificiale scavate nella roccia, con pianta di forma circolare e ingresso rettangolare, a volte preceduto da un piccolo dromos (corridoio). Chiari sono i contatti con la cultura Micenea, della quale si imitano le tombe e le Tholos.
• Età arcaica e classica.

Durante questo periodo assistiamo alla nascita di molti centri indigeni, poi ellenizzati, come Piano Casazze (Mineo) e i siti distribuiti lungo tutta la Valle dei Margi e presso le principali vie di comunicazione. Verso la metà del VII a.C. sorge il phrourion siculo-greco di Altobrando.
• Età romana

Durante l’età romana, il territorio indagato sembra essere poco frequentato, tranne qualche piccolo insediamento riferibile all’età tardo-imperiale.

  • Età tardo-antica e alto-medievale

E’ a partire dall’età tardo-romana e alto-medievale che si assiste ad un parziale ripopolamento del territorio. La zona si presenta caratterizzata da fattorie di modeste dimensioni.

  • Gaetano Lino – La “tecnica” nello scavo e nel recupero della nave romana di Marausa (TP).

Il contributo illustrerà, con foto e filmati, le principali fasi di scavo e di recupero del relitto di una nave romana rinvenuta nel 2000 nelle acque antistanti il lido di Marausa, in provincia di Trapani.
Si tratta di uno dei pochi esempi di scavo e recupero totale di un relitto a struttura lignea risalente al III-IV secolo d.c.

Le operazioni, eseguite in tre distinte fasi (2002 – 2009 – 2011), si sono concluse con il recupero del carico e dell’intera struttura lignea, rimasta sigillata sotto un consistente strato di argilla plastica per oltre 1.600 anni.

Proprio il recupero della parte lignea, costituita da innumerevoli elementi lavorati (per complessivi otto mc.) e attualmente in fase conclusiva di restauro, ha comportato la necessità di sperimentare tecniche pensate appositamente per questo relitto.

  • Sebastiano Muratore – L’insediamento indigeno ellenizzato sul Monte Iudica (Castel di Iudica, CT). I dati dalle nuove ricerche del 2016.

Nel corso dell’estate 2016, dopo anni di interruzioni, nuove indagini scientifiche presso l’insediamento indigeno ellenizzato presente sul Monte Iudica (Castel di Iudica, CT) hanno interessato l’area dell’abitato, datato nell’ultima fase fra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C., portando alla luce alcune testimonianze archeologiche riferibili ai diversi periodi storici ed alle fasi di riuso che si sono succedute nella zona. In particolare, la struttura indagata (il vano A del SAS IV), fa parte di un abitato probabilmente a terrazze, con un andamento abbastanza regolare (il che fa intuire una concezione già ellenizzata dell’impianto urbano, rispetto a quello irregolare di tipo indigeno), con vani che si aprono anche su cortiletto o passaggi fra gli ambienti. Tale ambiente ha restituito possenti muri che ancora si elevano fino a 1.65 metri di altezza, e la presenza di rasature appena evidenti sul piano di campagna, e pertinenti ad altre strutture, fa intuire uno sviluppo urbano di grande importanza, in questa zona sotto la cima sud-est fittamente abitata. Si può dunque pensare che entro il primo decennio del V secolo a.C. via sia stata una distruzione dell’abitato indigeno già culturalmente influenzato dai Greci di “Leontinoi” ad opera dei Greci guidati da Ippocrate di Gela, e che questi si siano poi insediati sul sito, totalmente o in parte. La fine di queste strutture, sembra invece potersi inserire nell’epoca di Dionigi il vecchio e delle guerre contro i Cartaginesi e contro le città sicule a loro alleate.

 

ORE 15,30

STORIA DELL’ALIMENTAZIONE

  • Vera Giorgianni – Brevi cenni sulla storia della cucina siciliana. [comunicazione]

Per la sua posizione geografica centrale, la Sicilia è sempre stata terra di incontro e di scontro tra diverse civiltà.

Insieme alla lingua, alle vestigia, ai monumenti e allo straordinario e ricco corredo genetico, le molte dominazioni che si sono succedute nell’isola hanno lasciato segni inconfondibili anche nelle abitudini alimentari.

Quello che oggi definiamo “il mangiare siciliano” è il risultato della fusione tra diverse e secolari abitudini alimentari che trovavano nella feconda terra di Sicilia facile e rigoglioso sviluppo.

Ancora oggi nei piatti della nostra tradizione più genuina troviamo la semplicità della cucina greca, l’austerità di quella romana, l’uso della ricotta e della cannella nei dolci di origine bizantina, gli inusuali abbinamenti agrodolci dell’alimentazione araba, il pesce stocco e il baccalà dei normanni, i pasticci di verdure o di carni delle tavole dei monsù francesi, la fantasia ed i colori della cucina spagnola, l’opulenza e l’abitudine di servire numerose portate derivate dalle dominazioni borbonica e sabauda.

Grazie alla caratteristica tutta siciliana di saper accogliere e collegare le vecchie conoscenze con le nuove esperienze, queste abitudini alimentari si sono sapute fondere ed esaltare creando particolari accostamenti e nuovi sapori, poi esportati in tutto il mondo.

 

  • Marcello Proietto – Risorse ittiche e alimentazione monastica nella Sicilia orientale (secoli XIV-XVI).

Saranno presi in esame i privilegi regi, editi ed inediti, che attestano la concessione di pesce nel monastero di San Nicolò l’Arena di Catania, nei monasteri di Santa Chiara e Santa Trinità di Lentini e nel monastero femminile di San Benedetto di Catania.

  • Luigi Romana – Le ghiacciaie siciliane.

Saranno presentate le principali strutture, naturali o artificiali, utilizzate in Sicilia nei secoli passati per la conservazione della neve, mettendo in evidenza come la tipologia della ghiacciaia fosse strettamente dipendente dalla sua posizione altimetrica, oltreché dalle caratteristiche del sito, il quale doveva essere posto in una zona sottovento rispetto alle più frequenti perturbazioni nevose.

Inoltre, all’analisi degli aspetti puramente materiali delle neviere, sarà fatta seguire una disamina sia degli elementi culturali che hanno determinato il crescente consumo di ghiaccio in Sicilia a partire dalla fine del XVI secolo, che delle novità connesse al gusto per gli alimenti freddi.

 

CREDENZE ANTICHE

 

  • Rosario Moscheo – Alcune credenze popolari tra religiosità e medicina.

Come ho già avuto modo di fare negli ultimi tempi, la mia comunicazione concerne il rapporto strano (oggi), ma in altri tempi quasi inestricabile, tra scienze e pseudoscienze. Una delle mie ricerche sul Maurolico ha riguardato il suo essere scienziato ‘puro’, a tutto tondo (come si direbbe oggi) o a 18 carati, e la sua indubbia propensione, “exclusis superstitionibus”, verso l’astrologia.

Nel mio intervento non tornerò per l’ennesima volta su Francesco Maurolico, ma mi concentrerò su suo nipote Silvestro, che nel corso dei suoi documentati viaggi ispanici -volti a mettere in piedi il suo capolavoro (Historia sagra di tutte le religioni del mondo,Messina, Brea, 1613) e a procurare fondi per la pubblicazione degli inediti più importanti del grande zio- ebbe pure modo di trafficare in sacre reliquie niente meno che con Filippo II d’Asburgo, peraltro beneficiario di varie forniture di mss. per la Biblioteca dell’Escorial. Mi soffermerò su un documento che, trattando anche la mancata tutela dei luoghi ‘sacri’ e ‘non ‘sacri’, descrive strane teorie sull’uso delle sacre reliquie.

  • Shara Pirrotti – Le formule di maledizione nei documenti medievali.

La relazione, prendendo spunto dai significati di “benedizione” e “maledizione” presenti nei testi sacri, indaga l’utilizzo degli “anatemi” all’interno dei documenti ufficiali (cartacei, in pietra e in altri materiali) fin dai primi esempi, attestati in area mesopotamica e in Asia minore.

Ci si soffermerà successivamente sulle formule anatematiche, dette “clausole bizantine”, presenti in alcuni documenti dei monasteri italo-greci dell’Italia meridionale, con particolare riferimento al Tabulario di San Filippo di Fragalà.

 

A R T E

  • Valentina Certo – Il revival della glittica federiciana. [comunicazione]

Attraverso l’arte l’imperatore Federico II creò un impero erede della tradizione classica più pura; la rinascita dell’architettura monumentale, il miracolo della scuola poetica siciliana, il richiamo dell’antico nelle monete e la ripresa di temi politici, pagani e religiosi, nella glittica sanciscono un legame con un mondo ormai scomparso nonché la sua particolare propensione alla conoscenza di altre culture come quella islamica, bizantina e provenzale. Proclamandosi discendente diretto dei Cesari Romani voleva dimostrare, infatti, come il suo regno fosse diverso da quello dei sovrani precedenti e che la sua “renovatio imperii” aveva come modelli Augusto e Costantino. Fin dai tempi antichi l’arte della glittica esercitò un fascino non indifferente che trovò la sua massima espressione con le civiltà classiche, per poi esaurirsi con la fine dell’impero romano di Occidente. La lavorazione dei cammei, nata ad Alessandria e di origini antichissime, consisteva nell’incidere e lavorare a più strati pietre preziose come l’onice e la sardonice. Nei cammei le figure acquistavano un marcato vigore plastico ed un forte impatto coloristico grazie alla stratificazione del materiale utilizzato. La rinascita e la ripresa dell’arte dell’intaglio delle pietre nel periodo medievale, specialmente a soggetto religioso e mitologico, è tutta legata alla personalità di Federico II. L’imperatore, infatti, in occasione di particolari avvenimenti, ordinava agli artigiani di corte di realizzare incisioni e cammei carichi di allusioni e capaci di esprimere, attraverso simboli, attributi, personificazioni e allegorie, precisi programmi o raccomandazioni. Le piccole e preziose opere potevano essere esposte, per esaltare la sua figura, o donate per rinsaldare sudditanze ed amicizie. Attualmente si conosce solo un numero esiguo dei cammei della collezione svevi, ma sappiamo che nell’inventario del tesoro imperiale, dato in pegno nel 1253 da Corrado IV di Svevia ai genovesi, sono menzionati cinquecentoundici “lapide entaliate excluse”, trentacinque intagli (montati in oro, in argento e in bronzo), settantasette cammei privi di montatura e molte altre pietre preziose. Pochissimi sono quelli assolutamente federiciani. Molti di questi cammei provengono dalla collezione normanna, altri dal sacco di Costantinopoli, altri ancora sono stati soltanto acquistati da Federico.

La mia ricerca, tramite un attento studio delle fonti e soprattutto delle opere coeve, tenta di ricostruire la collezione glittica commissionata direttamente da Federico II. I cammei federiciani, infatti, riprendevano la politica, i temi, l’ideologia imperiale, gli usi ed i costumi di corte e, soprattutto, dal punto stilistico ed iconografico, richiamavano il naturalismo classico tipico dell’arte greca e poi romana. Si cercherà, quindi, di datare cronologicamente i vari cammei, tenendo conto dei cambiamenti di stile; le varie opere saranno messe in relazione e confrontate tra loro. Un ulteriore confronto ed approfondimento verrà fatto con le opere di scultori ed artisti del sud Italia che operavano a corte, specialmente Nicola Pisano documentato “De Apulia”.

 

  • Calogero Brunetto – I Bagnasco: duecento anni di scultura in Sicilia.

I Bagnasco, famiglia di scultori trapiantati in Sicilia, svolsero per più di due secoli la loro attività arricchendo con opere molte chiese del Val di Mazara.

Per le sue geniali doti, personalità di spicco si rivelò Girolamo Bagnasco (1759-1832), che gli eventi spinsero nell’ambito della coeva cultura artistica verso un salto qualitativo trasformando l’attività di bottega ereditata dal padre Giovanni (dedita all’intaglio, all’ornato e all’esecuzione di raffinate e ricercate statuette da presepe) nella più proficua scultura lapidea e lignea, con produzione di statue a grandezza naturale.

Girolamo, riconosciuto caposcuola della numerosa famiglia, si formò dapprima nella bottega paterna, poi, incoraggiato dal duca di Serradifalco che lo sostenne a proprie spese per tre anni, frequentò l’Accademia della Regia Università di Palermo e perciò l’ambiente di illustri artisti del periodo, tra cui Giuseppe Velasquez.

La maturità artistica di Girolamo fu invece connotata dall’intima amicizia con il pittore Giuseppe Patania. Apparentemente, la sua produzione artistica si rivelò molto vicina ai modi del Quattrocchi, ragion per cui molte opere sono state attribuite ad entrambi.

Considerato il più famoso artista dell’Ottocento, tanto da essere definito lo scultore di Dio, Girolamo avrà un rapporto esclusivo di committenza con alcuni ordini religiosi, come i Carmelitani, i Mercedari ed anche i Domenicani. Le poche notizie sullo scultore ci pervengono dal necrologio redatto dello storico Agostino Gallo e più recentemente da Felice Dell’Utri.

La produzione artistica di Bottega continuò per quasi duecento anni dopo la sua morte con tutta una serie di diretti e collaterali discendenti che però, proprio per il numero considerevole di personalità artistiche (alcuni omonimi), ha generato tra gli storici dell’arte una gran confusione, specie per le attribuzioni spesso gratuite, in assenza di supporto documentale.

La ricerca più che ventennale sui Bagnasco da parte dello scrivente, ha prodotto di recente la prima monografia aggiornata sulla prestigiosa famiglia di artisti palermitani, individuando nello specifico tutte le personalità artistiche (nipoti e pronipoti del capostipite), riassunte in profili biografici e sintetizzate nell’albero genealogico.

  • Cosimo Scordato – Il “puttino” nell’opera di Giacomo Serpotta.

Il “puttino” riveste notevole importanza nella produzione artistica di Giacono Serpotta, non solo per la funzione giocosa e ornamentale, ma anche perché si inserisce in una ricerca volta a interpretare/commentare la storia di Dio e dell’uomo nei misteri del Rosario e nelle vite dei santi.

Il “puttino”, grazie al maturo contributo del Serpotta, trova notevole arricchimento estetico e nuovi sviluppi qualitativi e artistici.

 

  • Luigi Giacobbe – Monumenti ai caduti della grande guerra nella provincia di Messina.

La Sicilia versò alla Grande Guerra (1915-1918) il tragico tributo di oltre 55.000 giovani caduti e di 250.000 feriti e mutilati. I loro nomi sono incisi nelle centinaia di lapidi poste nei monumenti e nei cimiteri di tutto il territorio, talvolta con l’indicazione dei dati anagrafici, della paternità e del grado militare. Sulla base di queste considerazioni di carattere generale e sulla scorta delle numerose pubblicazioni edite sull’argomento, la Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Messina ha effettuato una ricognizione completa sul patrimonio monumentale della provincia di Messina che, pur non avendo ospitato il fronte delle operazioni militari, ha partecipato alla Prima guerra mondiale con le nefaste ricadute antropologiche, sociali ed economiche. Il progetto, promosso dalla Prefettura di Messina è confluito nel volume “Memorie della Grande Guerra. Monumenti ai caduti della provincia di Messina” (a cura di Luigi Giacobbe, Messina 2016), e ha interessato i monumenti ai caduti presenti nei centootto comuni della provincia messinese con un inventario fotografico completo. Prima iniziativa di catalogazione complessiva in Sicilia, il contributo intende dunque fornire un ulteriore apporto alla conoscenza dell’ingente patrimonio monumentale del territorio, con l’auspicio che le pratiche di conservazione, salvaguardia e valorizzazione possano essere adottate, anche per questi beni, nelle forme più incisive e concrete.

 

SABATO 15 OTTOBRE – ORE 9,00

LETTERATURA E PROSPETTIVE DI RICERCA

  • Studenti del corso “Storia dell’Europa medievale” A.A. 2015/16, CdL Magistrale in «Scienze Storiche: Società, Culture e Istituzioni d’Europa» – Dalla fonte documentaria alla pagina storiografica: il Giustizierato di Basilicata nei Registri della Cancelleria Angioina (1266-1282).

Con il presente contributo s’intende, anzitutto, indicare una metodologia d’indagine storica che, condotta direttamente sopra un “corpus” documentario d’enorme rilievo per l’intero Mezzogiorno d’Italia, risulta efficace strumento di ricerca per ricostruire, in senso ampio, tutte le realtà territoriali (giustizierati provinciali), che composero il “Regnum Siciliae” in età angiona.

Fonte primaria, infatti, è costituita dai “Registri della Cancelleria Angioina”, nel tempo oggetto di una serie di devastazioni, culminate con la quasi totale distruzione durante l’ultimo conflitto mondiale, ma parzialmente tramandati nel corso dei secoli ad opera di diversi studiosi e, a partire dal 1950, raccolti e pubblicati da Riccardo Filangieri e dagli “Archivisti Napoletani” per l’Accademia Pontaniana. Sono giunti fino a noi incompleti e in attesa di essere ulteriormente indagati, ma si mostrano fondamentali per la ricostruzione delle strutture politiche ed economiche, come pure dei complessi schemi e meccanismi della società siciliana. In definitiva, partendo da quest’importante fondo documentario e da altre testimonianze, si è voluto delineare un quadro dell’organizzazione politica, sociale ed economica del giustizierato lucano, alla luce degli stretti intrecci di famiglie mercantili ed imprenditoriali che, soprattutto durante il regno di Carlo d’Angiò, legarono ogni giustizierato a tutti gli altri, entro uno schema pertanto leggibile in senso complessivo ed unitario.

  • Antonino Marrone – Il club dei nobili lettori e la letteratura di evasione nel Trecento siciliano.

Questo lavoro prende spunto da un testamento del 1333, dettato da Scalore degli Uberti, con il quale questo nobile siciliano, di origine fiorentina, dava mandato agli eredi di restituire ad alcuni suoi nobili amici vari libri che gli erano stati prestati, e dei quali indicava i titoli e gli argomenti. Attraverso questo testamento viene offerta l’opportunità di conoscere i gusti letterari e le letture di una parte della nobiltà siciliana e di quella di origine tosco-emiliana-romagnola che aveva il suo radicamento nell’area centro orientale dell’Isola. Gli interessi letterari dell’Uberti e di quelli che facevano parte del suo “club di nobili lettori” (Giovanni Chiaromonte, Raffaele Branciforti, Giovanni de Geremia, Prandino Capizzana, Scaloro Gangalandi e Tristano dei Conti Guidi) riguardavano soprattutto il romanzo cavalleresco, le suggestioni delle antichità romane e la letteratura agiografica. Il testamento di Scalore degli Uberti, inoltre, descrive la presenza in Sicilia dell’Inferno di Dante.

Di particolare interesse è il confronto tra le letture di questo club e gli argomenti presenti sia nei manoscritti che il nobile bibliofilo siciliano Berardo Ferro di Marsala si faceva miniare nel 1338, sia in due opere in volgare scritte negli anni venti-trenta e dedicate ai sovrani di Sicilia (già magistralmente indagate e segnalate da Henri Bresc).

Nella seconda metà del Trecento la documentazione archivistica sulla letteratura d’intrattenimento dei nobili siciliani risulta abbastanza scarna, anche se varie informazioni sono desumibili dal complesso pittorico che è presente nel soffitto ligneo della Sala dei Baroni dello Steri di Palermo (1377-1380).

 

  • Antonio Cucuzza – Un manoscritto del XVI secolo.

Il mio intervento intende seguire le tracce di un volume manoscritto presente nella biblioteca della ‘Società ramacchese di storia patria’, contenente una quarantina di documenti inerenti l’amministrazione del Regno di Sicilia, compresi i dati dei riveli del XVI secolo (alcuni in forma sommaria, altri particolareggiati). Il volume contiene inoltre diversi elenchi di titolati (capitani, pretori, giudici, parlamentari, ecc.) che gravitavano attorno alla corte palermitana, e varie notizie sulle strutture fortificate e sui loro armamenti.
Il volume – i cui documenti contenuti sono in buona parte noti agli studiosi per le copie esistenti presso la biblioteca comunale di Palermo- si presenta privo della copertina originale e di indicazioni. Ciò pone varie domande (committenza, scopo della compilazione, ecc.), alle quali cercherò di dare risposta nel mio intervento.

 

  • Dario Piombino Mascali – Biostorie: i resti umani mummificati come fonte d’informazione.

La Sicilia ospita un ingente numero di resti mummificati, risalenti ai secoli XVI-XX dell’era attuale, la maggior parte dei quali si trova nelle celebri Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tuttavia, altri importanti giacimenti sono presenti nelle località di Savoca, Piraino, Gangi, Santa Lucia del Mela, Novara di Sicilia e Burgio. Dal 2007, chi scrive, dirige il “Progetto Mummie Siciliane”, volto a indagare scientificamente questo importante patrimonio bio-culturale e a comprendere le pratiche di mummificazione locali. Questa rassegna riassumerà le tecniche di conservazione dei corpi impiegate nell’isola, analizzando le relative strutture architettoniche situate in cripte e cappelle sotterranee. I risultati saranno supportati da dati radiologici e tomografici, che hanno altresì permesso l’acquisizione di una mole di dati antropologici atti a ricostruire il profilo biologico e nosologico dei soggetti; essi saranno inoltre integrati da fonti archivistiche e testimonianze inedite che descrivono in dettaglio le attività tanatologiche praticate nell’area. Questo studio getta nuova luce sulle usanze funebri della regione, oltre a illustrare gli ottimi casi di imbalsamazione religiosa raggiunti nei secoli XIX-XX. Infine, verrà fornito un modello interpretativo originale, attraverso il confronto con la letteratura sociologica relativa ai costumi funebri.

  • Luigi Santagati – Considerazioni sulla storia nascosta della Sicilia: ponti romani ed altro.

Le mie recenti ricerche sulla viabilità della Sicilia antica mi hanno portato a censire oltre 500 ponti d’età storica, che confluiranno nei prossimi mesi in un volume intitolato “Ponti antichi, medievali e feudali della Sicilia. Catalogo ragionato comprendente anche gli acquedotti con un’appendice sui ponti d’acqua di mulino ed una sui traghetti fluviali e marini” (540 pagine).

I ponti attribuibili al periodo romano (III a.C. – VI secolo) sono circa 80-90, collocati non solo sui grandi percorsi dell’Itinerarium Antonini e della Tabula Peutingeriana. Una cinquantina di ponti risalgono al periodo medievale (VII-XV secolo), mentre la restante parte risulta collegabile al periodo feudale (XVI-XVIII secolo).

Ho inoltre censito centinaia di km occupati da strade selciate (integrate ai ponti), costruite in senso nord-sud e legate, probabilmente, all’esportazione del grano.

Questi dati fanno riflettere su quanto la maggior parte degli storici moderni ha scritto ed affermato, ovvero che la Sicilia non avesse avuto nell’antichità (e fino all’Unità d’Italia) una decente rete di comunicazioni, a differenza di quanto avvenuto nel periodo romano. I viaggiatori del “Grand Tour”, inoltre, percorrevano le tracce greche e romane in luoghi abbandonati da secoli, senza considerare le nuove strade che erano state costruite dopo l’età classica.

Dal mio studio si è così generata una storia “nascosta”, mai entrata nei libri di storia, da cui si apprende di una Sicilia romana con un numero di ponti inferiore solo al Lazio, e di una Sicilia feudale servita da una notevole rete infrastrutturale (forse, per quel periodo, la più importante d’Europa).

 

  • Antonino Teramo – L’ episcopato siciliano negli ultimi decenni del XIX secolo. La Conferenza Episcopale regionale tra storiografia e nuove prospettive di ricerca.

Nel corso del XIX secolo la Chiesa siciliana è segnata da rotture e mutamenti. Non solo le rivoluzioni del ’48 e del ’60 costituiscono momenti di frattura e di passaggio, e non può essere ignorata la particolare condizione isolana che ha visto, dopo l’Unità, la fine del plurisecolare Tribunale della Regia Monarchia, istituto connesso al privilegio, di origini medievali, della Legazia Apostolica. La complessa articolazione dei rapporti Stato-Chiesa in questo frangente vede i vescovi protagonisti. La riorganizzazione delle diocesi siciliane nella prima metà del secolo, la «Congregazione episcopale sicula» del 1850 e le numerose sedi vacanti nel decennio successivo all’Unità sono solo alcuni momenti che segnano più generazioni di vescovi, costretti a misurarsi prima con il giurisdizionalismo borbonico e poi con il laicismo sabaudo, ma anche con i cambiamenti della società. Negli ultimi decenni del secolo, i vescovi, pur non abbandonando il proprio particolarismo diocesano, sentono la necessità di un’azione unitaria. Le conferenze episcopali regionali, volute da Leone XIII, si attuano in Sicilia in un ambiente maturo, con un corpo episcopale in grado di dialogare e collaborare con una propria identità ben definita. La prima conferenza del 1891 è il primo passo di un certo peso all’interno di un percorso che vedrà l’episcopato di Sicilia in prima linea nel contrastare il processo di secolarizzazione della società. La storiografia sull’episcopato siciliano vede come fondamentali gli studi di Francesco Michele Stabile, Cataldo Naro e Gaetano Zito. Tuttavia i documenti relativi alle Conferenze Episcopali, conservati nell’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Palermo, permettono di porre nuove domande e di definire in modo più organico l’intreccio dei rapporti tra i vescovi della Sicilia.

  • Diego Ciccarelli, Carolina Miceli e Giuseppina Sinagra - Libro e documento nell’insegnamento universitario a Palermo.

Nel 1843, con regio decreto, veniva istituita presso l’Archivio Generale di Palermo la scuola di paleografia e diplomatica. Primo docente fu, nel 1855, Salvatore Cusa, che poi optò per la cattedra di arabo. Nel 1875 gli successe Isidoro Carini, chiamato nel 1884 ad insegnare nella scuola di paleografia presso l’Archivio Vaticano, appena istituita da Leone XIII. In seguito ottenne la cattedra Raffaele Starrabba, cofondatore con Cusa e Carini dell’Archivio Storico Siciliano (edito a cura della scuola di paleografia di Palermo).
Altri docenti furono Giuseppe Cosentino (1886-88) e Carlo Alberto Garufi (che nel 1923 fondò il gabinetto di storia medievale e di paleografia con Filippo Pottino).

Dopo una parentesi con Francesco Giunta, si registrò il notevole impegno di Paolo Collura (dal 1966 al 1983 docente oltre che apprezzato studioso).

Come ricercatore e poi come professore associato, dal 1980 al 2011, in vari corsi a Palermo ed Agrigento, Diego Ciccarelli insegnò paleografia, diplomatica e codicologia, con seguito di pubblicazioni e con l’attivazione di un laboratorio di paleografia presso la Biblioteca Francescana di Palermo. Nelle attività didattiche e scientifiche ha fornito un valido aiuto Carolina Miceli, dottoressa di ricerca.
A Palermo e Agrigento le predette discipline sono state insegnate, dal 1998 fino alla data delle sue dimissioni, da Paolo Cherubini.

L’attenzione al libro miniato e a stampa non può omettere il ricordo di Nicolò Domenico Evola, docente nella facoltà di lettere di Palermo dal 1942 al 1958, e di Angela Daneu Lattanzi, notissima e apprezzata studiosa di miniatura che ha trovato una degna continuatrice in Maria Concetta Di Natale.
Nel 1992, nella Facoltà di Magistero poi di Scienze della Formazione, venne ripristinato l’insegnamento di biblioteconomia e bibliografia con Diego Ciccarelli fino al 1996; lo stesso insegnamento fu poi attivato presso il corso di laurea in Beni Archivistici e Librari nel polo di Agrigento. In questi corsi e presso la sezione manoscritti della Biblioteca centrale della Regione Siciliana hanno messo a disposizione la loro esperienza professionale Giuseppina Sinagra e Claudia Giordano.

 

ORE 15,00

NUMISMATICA E PRODUZIONI MONETARIE

  • Grazia Salamone – Dee e tiranni di Sicilia: la comparsa della figura femminile sulle monete siceliote.

La funzione della moneta quale fonte storica di primaria importanza non sempre è stata pienamente riconosciuta, anche da parte degli stessi studiosi del mondo antico. Il tondello di metallo, ‘autenticato’ dal sema impresso dallo Stato, è difatti un documento assolutamente ufficiale, per il quale la scelta di immagini e scritte non era affatto casuale. Tramite la moneta l’autorità emittente (“polis/urbs” o sovrano) diffondeva idee e messaggi in determinati contesti sociali e territoriali.

Indagare la comparsa della figura femminile sulle monete siceliote consente di ricostruire specifiche istanze ideologiche e storiche di un’epoca dominata da “leader”, noti e meno noti, che fecero la storia della Sicilia del primo trentennio del V sec. a.C. Si presenterà un percorso iconografico, attraverso il documento monetale, che dalla Siracusa dei “gamoroi” prima e dei Dinomenidi dopo ci condurrà ad una ‘zona di confine’ tra l’area greca e non greca, e cioè ad Himera e Segesta. La lettura dei tipi – alla luce del metodo LIN (“Lexicon Iconographicum Numismaticae”, elaborato presso la Cattedra di Numismatica dell’università messinese) – consentirà di recuperare la funzione di questi soggetti, non soltanto ninfe mitologiche, ma figure dalla più complessa fisionomia (le c.d. ‘ninfe eponime’ di Città). Si tratta di testine connotate da attributi quali gioielli e nastri per capelli, veri e propri ‘segni’ della “charis” del personaggio, nel suo “status” di nymphe-sposa, promessa di fecondità e rinnovamento. Si delinea, in sintesi, il concetto di una dea ‘regina’ e ‘sposa’ trasmettitrice del potere politico, derivata dalle dee medio/vicino orientali, antiche progenitrici della greca Afrodite. La comparsa del soggetto femminile sulle monete siceliote, innanzitutto mediante la rappresentazione della testa e secondo modelli altrove consolidati (Corinto e Atene soprattutto), bene si spiega – come vedremo – in contesti politici di tipo élitario/tirannico a Siracusa e ad Himera e, tramite quest’ultima, anche nell’elima Segesta.

  • Luciano Catalioto – La Zecca di Messina ed i suoi operatori in età medievale.

Il tema di questo breve intervento, stimolato senz’altro dall’importante e multiforme studio sulle Zecche del nostro Paese e sulla loro valenza in una prospettiva “unitaria”, edito nel 2011 dall’Istituto Poligrafico di Stato, si collega ad un’indagine politica e socio-economica sul regno meridionale che, ormai da decenni, è oggetto di fecondo dibattito da parte di storici, economisti e storici del diritto. Prima di entrare nel merito della questione, è parso opportuno ripercorrere in estrema sintesi alcune tappe indicative che hanno segnato, pur attraverso vuoti secolari, il percorso millenario della Zecca di Messina sino all’epoca esaminata, soffermandosi soprattutto a delineare l’età normanno-sveva e gli anni particolarmente densi a cavallo tra la dominazione angioina e quella aragonese. Sotto il regno di Carlo I d’Angiò si realizzarono le trasformazioni più profonde legate all’attività della Zecca zanclea, le quali incisero profondamente, non tanto sotto il profilo strettamente numismatico ed iconografico, dove semmai si coglie una continuità che assimilando univa, quanto piuttosto sotto l’aspetto dell’evoluzione sociale, attraverso particolari dinamiche, destinate a modificare profondamente gli equilibri interni alla “civitas” e, nel lungo termine, ad assegnare un nuovo assetto unitario alla struttura socio-economica del regno ed alla sua dimensione culturale. Alla politica cittadina di Carlo d’Angiò si collegano particolari dinamiche, che portarono al consolidamento del ceto mediano ed alla promozione sociale di una casta composita di imprenditori peninsulari, “burgenses” e “iurisperiti” legati professionalmente ai “meliores cives” e ad essi vicini per censo e cultura. Si costituì così, nella città del Faro, una potente élite locale che rappresentò una novità per un centro urbano del Mezzogiorno d’Italia, con l’ascesa di un’oligarchia guidata da intraprendenti mercanti-burocrati (i cosiddetti Amalfitani), cioè da famiglie rapidamente arricchite attraverso i traffici commerciali e la gestione in gabella di molti uffici pubblici, primi fra tutti quelli della secrezia, della portolania e -appunto- della zecca. In definitiva, le attività e le complesse vicende collegate alla Zecca di Messina, deputata al conio di monete che avrebbero dovuto esaltare la centralità della monarchia e farsi garante della sua inalienabilità, furono paradossalmente all’origine di una trasformazione sociale profonda, destinata a fissare nuovi equilibri istituzionali, a scardinare i tradizionali rapporti di potere tra sovrano e sudditi ed a fissare nuovi modelli culturali fortemente identitari, cui si sarebbe fatto riferimento per l’intera età aragonese.

  • Maria Caccamo Caltabiano – Monete che narrano: la Sicilia e l’ideologia della salvezza.

Le monete sono documenti ufficiali e diretti che spesso hanno conservato notizie assenti dalle fonti letterarie giunte fino a noi. Esse “parlano” attraverso le immagini che le connotano, avvalendosi di un linguaggio simbolico e di un codice di comunicazione che trova ampio riscontro nell’odierna “civiltà delle immagini”.  Nel V sec. a.C. alcune monete di  città siciliane presentano due figure maschili associate all’iscrizione SOTER (Salvatore). Esse  pongono il problema della diffusione di un messaggio di salvezza, connotato da indubbie valenze politiche, che la lettura delle immagini monetali e di alcuni documenti archeologici aiutano a ricostruire. La prima figura è quella tradizionale del padre di tutti gli dei, Zeus, presente sulle monete di Galaria; la seconda compare sulle monete di Himera (470 a.C. ca.). Essa rappresenta un giovane cavaliere che discende dall’alto, con il capo cinto da una fascia ornata da ricurve corna di capro. L’annuncio del suo arrivo è dato da Himera, personificazione della città omonima, raffigurata al diritto della moneta nell’atto di compiere una libagione presso l’altare; accanto a lei sono presenti l’immagine di un caduceo, simbolo di annuncio, e l’iscrizione SOTER. La presenza di un analogo cavaliere  sulle monete della città fenicio-punica di Motya porta ad ipotizzare l’origine orientale di questa ideologia della salvezza. Non a caso il tipo monetale del giovane cavaliere che scende da cavallo, oltre che in Sicilia, si ritrova esclusivamente in ambito orientale, sulle monete della città di Tarso. Esso è abbinato sul rovescio all’immagine di un capro, evocato ad Himera dalle corna ricurve del cavaliere, ed associato anche  a Tarso al simbolo del caduceo. Si propone, infine, che il messaggio della nascita di un puer salvifico, cantato – agli inizi dell’Impero Romano – da Virgilio nella sua IV ecloga, traesse origine da una tradizione già nota in Sicilia nel V sec. a.C.

 

  • Rosario Basile – Santa Lucia del Mela e la sua Prelatura dall’XI al XVI secolo. Ricostruzione della storia sulla base di una obiettiva interpretazione dei documenti coevi. [Comunicazione]

Questo lavoro si propone di far luce sul periodo più oscuro e dibattuto della storia di Santa Lucia del Mela attraverso un’analisi attenta ed obiettiva di documenti che, nel passato anche recente, sono stati ignorati o male interpretati.

Vengono così smentite alcune notizie errate riportate dal Pirri, in particolare quella secondo la quale la Prelatura “nullius” di Santa Lucia sarebbe nata nel 1206 per volere dell’imperatore Federico II di Svevia.
Sulla base di indicazioni documentarie e di evidenze archeologiche e toponomastiche, si individua l’ubicazione dell’antico casale di Santa Lucia che fu abbandonato nel 1324, quando l’abitato venne trasferito sul vicino colle Maccarruna, dove Re Federico III d’Aragona aveva dato ordine di costruire un castello in difesa della popolazione. Fonti primarie e secondarie evidenziano l’esistenza sullo stesso colle di una precedente fortificazione, probabilmente di epoca araba. Si cercheranno infine di chiarire i reali motivi per cui la Chiesa di Santa Lucia divenne “nullius diocesis” e Cappellania Maggiore del Regno.

 

  • Franco Biviano – Verità e falsità su un personaggio della storia luciese: Gregorio Mostaccio.

Gregorio Mostaccio è un personaggio chiave della storia di Santa Lucia del Mela. A lui infatti – secondo quanto afferma il Pirri – Federico II di Svevia avrebbe donato nel 1206 il casale di Santa Lucia con tutti i diritti connessi, togliendolo alla diocesi di Patti e Lipari, in quel frangente priva di titolare. La donazione costituirebbe – secondo la storiografia corrente – l’atto di nascita della prelatura nullius di Santa Lucia del Mela. A questo personaggio gli storiografi, dal Settecento ad oggi, hanno attribuito titoli e vicende che non trovano riscontro nella documentazione pervenutaci, facendolo addirittura diventare cappellano maggiore del Regno di Sicilia. Per converso, sono ignorati o stravolti atti, comportamenti ed eventi che le fonti coeve riportano in maniera chiara ed esplicita. Questo studio intende ricostruire, attraverso una meticolosa rilettura dei documenti, la verità storica sul personaggio Gregorio Mostaccio e sugli avvenimenti che lo hanno visto coinvolto.

  • Sandro Carocci – Santa Lucia del Mela e la storia della signoria meridionale in età normanno-sveva.

Fra i villaggi del Regno di Sicilia, proprio Santa Lucia del Mela è quello per il quale le fonti medievali consentono di conoscere meglio e con maggiore dettaglio le forme di gestione della signoria (cioè il potere esercitato da nobili e istituzioni ecclesiastiche sulla popolazione rurale) e i redditi che ne derivavano. Per questo Santa Lucia ha un posto d’onore in un mio recente libro, che ha permesso di individuare un Mezzogiorno finora sconosciuto, vitale e articolato, e che ha come protagonisti mondi contadini dal dinamismo finora insospettato, re determinati a limitare il potere aristocratico, e nobili costretti ad adattare la propria signoria alla forza delle società rurali e della politica monarchica. La relazione si sofferma su alcuni aspetti del ‘casale’ di Santa Lucia nel XII-XIII secolo, e su quanto ci dicono circa la più generale situazione dei villaggi nella Sicilia medievale, e di tutto il Regno.

  • Ferdinando Maurici – Il casale di Santa Lucia, il castrum Maccarruni e Federico III il Grande.

 

Lectio Magistralis
• Henri Bresc – Nel regno di Trinacria. Geografia e storia nell’opera di Giovan Luca Barberi.

 

 

DOMENICA 16 OTTOBRE – ORE 9,00

PERSONAGGI E FAMIGLIE NOBILI

  • Basilio Segreto – La nobile famiglia “de Amato” a Sant’Angelo di Brolo. [comunicazione]

Don Filippo Amato Angotta rivestì, in Palermo,  le cariche di Segretario del Tribunale del Santo Ufficio, di Giurato e di Senatore,  per poi divenire anche Deputato del Regno.

Ottenne il titolo di Principe di Galati da Filippo IV con diploma del 9 giugno 1644 e, successivamente, nel 1647, il sovrano gli concesse il titolo di Duca d’Asti, quale ricompensa per l’intervento diretto a far cessare i tumulti scoppiati a Palermo.

Morì a Palermo il 2 maggio 1653 ed ivi trovò sepoltura nella Chiesa di S. Francesco di Paola.

I suoi discendenti ottennero, in seguito, anche il ducato della città di Caccamo.

Il nobile Filippo, nato a Sant’Angelo di Brolo il 9 marzo 1590 da Bernardo Amato e da Costanza Angotta, discendeva da una nobile famiglia spagnola, originaria della città di Cardona, venuta in Sicilia al seguito del Re Giacomo.

Un ramo di tale famiglia si insediò prima a Messina e quindi, con Tomaso, esperto giurista, in Sant’Angelo di Brolo, ove acquistò fama ed ingenti cespiti patrimoniali, che trasferì, alla sua morte, ai diretti discendenti.

Gli Amato, a Sant’Angelo di Brolo, divennero proprietari di grandi fondi agricoli e costruirono solide e imponenti dimore di pregio, incrementando notevolmente il loro patrimonio grazie al fiorente allevamento del baco da seta ed ai  legami matrimoniali che seppero intrecciare con la preminente famiglia degli Angotta.

Agli Amato è legata, nella detta terra di Sant’Angelo, l’istituzione di un Ospedaletto e la chiesa di San Filippo e Giacomo, nella cui cappella dell’Annunziata, realizzata per volontà testamentaria del Tomaso e della di lui moglie Antonella De Caldareris, si trovano ancora due  sontuosi sarcofaghi nei quali giacciono le spoglie del predetto capostipite e dei figli Geronimo, Bernardo e Gregorio e nella quale trova anche collocazione un pregevole gruppo marmoreo dedicato al sacro evento dell’Annunciazione.

  • Calogero Miccichè – Lamaco in Sicilia. Riflessioni sulla grande spedizione ateniese del 415-413 a.C.

La grande spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C. fu un evento storico di grande rilevanza. Le fonti riservano ampio spazio a Nicia e Alcibiade, indiscussi protagonisti di un evento che ha condizionato enormemente la storia non solo della Sicilia (in particolare di Siracusa) ma soprattutto di Atene, avviando quel processo di graduale e inarrestabile declino ben evidente nel corso del IV secolo. E’ indubbio però che la documentazione relativa a Lamaco, il terzo stratego eletto dalla ekklesìa ateniese nel giugno del 415, confermi un probabile pregiudizio del comico Aristofane e un’innegabile “disattenzione” da parte degli storici nei confronti di un personaggio che non fu certo un protagonista della storia ateniese dell’ultimo venticinquennio del V a.C., collocabile cioè sullo stesso piano di Nicia, l’esperto e moderato senior, o di Alcibiade, l’enfant prodige della politica ateniese di quegli anni. Sono analizzate le probabili motivazioni che fanno del militare Lamaco un deuteragonista nel contesto della presenza ateniese sulla scena siciliana.

  • Giuseppe Pantano – Arnaldo da Villanova, medico, teologo, diplomatico e riformatore religioso tra XIII e XIV secolo.

Medico famoso, alchimista, uomo politico, teologo e riformatore religioso, Arnaldo da Villanova, noto in tutta l’Europa, diventò, specialmente per il suo atteggiamento religioso, segno di contraddizione su cui si scontrarono uomini di pensiero e di azione. Il suo pensiero costituisce un importante momento della storia della religiosità fra XIII e XIV secolo. Egli, infatti, fu uno tra i primi laici che nel Medioevo centrale rivendicò la dignità del suo stato e la legittimità delle sue competenze esegetiche e teologiche. Dopo la sua morte rimasero le sue opere, soprattutto quelle mediche e alchemiche, che conobbero un numero straordinario di edizioni fino al Seicento. Sarebbe oggi dimenticato se le indagini negli archivi e nelle biblioteche non avessero riscoperto questa straordinaria figura di uomo che, a cavallo tra Due e Trecento, fra papi, re e principi, seppe coraggiosamente essere se stesso.

  • Salvatore La Monica – I Branciforti: plurisecolare egemonia politica del casato tra XIII e XVIII secolo.

La famiglia Branciforti, insediatasi in Francia e in Spagna dopo la caduta dell’impero romano, ebbe tra i suoi esponenti il valoroso Obizzo, alfiere di Carlo Magno.

Il casato dei Branciforti in un secondo tempo si trasferì in Sicilia al seguito di Pietro II e di Federico III d’Aragona. Da quel lontano fine ‘200, di successo in successo, la famiglia assunse i più alti incarichi politici, militari e giudiziari nel Regno di Sicilia, fino a diventare il principale titolo nobiliare del braccio baronale-militare del Parlamento siciliano.

La loro epopea si protrasse fino al 1805, con l’ultima esponente del casato (Stefania Branciforti), titolare di un immenso patrimonio composto da circa 50 feudi.

  • Marco Grassi – La collezione della famiglia Di Giovanni, duchi di Saponara.

In Sicilia tra XVII e XVIII secolo è molto interessante analizzare l’evolversi e lo svilupparsi di un’antica famiglia nobiliare messinese che proprio in questo periodo, non certo facile, riesce ad arrivare ad un significativo livello sociale e politico. Il casato in questione è quello dei Di Giovanni, che tra Sei e Settecento accumulerà feudi e titoli nobiliari grazie a strette alleanze familiari, forti rapporti con l’Ordine di Malta, rilevanti legami con esponenti nella gerarchia ecclesiastica e riuscirà a vivere in modo agiato e con livelli culturali notevoli, basti pensare alla ricchissima collezione di opere d’arte, che non sfigurava in ambito europeo, o alla fornitissima biblioteca, dotata di una varietà notevole di pubblicazioni. Una famiglia che seppe giocare d’astuzia anche con i vari sovrani avendo benefici e conferme di una nobiltà che affondava le proprie origini in un patriziato urbano messinese, legato più al commercio che al regime feudale, ed a una leggendaria origine imperiale. Un esempio di una nobile schiatta che riuscì a raggiungere livelli socio-economici e culturali di carattere europeo e mediterraneo. Segno indiscusso del potere economico, ma anche della grande cultura in particolare del Principe e Duca di Saponara Vincenzo Di Giovanni, è senza ombra di dubbio la grande galleria di dipinti che decorava il grande palazzo di Messina posto sull’antica Correria. Una collezione che non doveva essere da meno a quella molto nota del Principe Antonio Ruffo della Scaletta ma che, a differenza di quest’ultima, non è stata ben studiata e analizzata nonostante la sua fama travalicasse lo Stretto. Già nel 1736, Lione Pascoli ricordava come a Messina il Duca di Saponara possedeva parecchi dipinti del Mattia Preti. Pochi i nobili che avrebbero potuto sfidare per ricchezza e lusso la casa Di Giovanni. Riusciamo a risalire a ben 323 dipinti e ad una enorme congerie di altre suppellettili di pregio grazie ad un inventario del 1731 dei beni dal Di Giovanni e dal testamento ed inventario di suo padre Domenico del 1703, dove di quadri se ne contavano ancora solo 130.

  • Giuseppe Ardizzone Gullo – I difficili rapporti tra i cittadini della baronia di Monforte ed il principe Moncada.

Dopo aver analizzato le successioni feudali (dai Pollicino ai Moncada) e le concessioni dei capitoli ai cittadini di Monforte e Samperi (oggi San Pier Niceto),  il contributo tratterà la protesta che i rappresentanti della baronia inoltrarono al governo per il riscatto del mero e misto imperio, e la successiva supplica al re inoltrata alla fine del ‘700.

 

ORE 16,00

ARCHEOASTRONOMIA E SIMBOLISMI

  • Alessandro Di Bennardo – Simbolismo e astronomia nella rifondazione cinquecentesca della strada del Cassaro a Palermo.

Lo studio offre un inedito punto di vista sulle proprietà simboliche di derivazione astronomica insite nel tracciato cinquecentesco di Via Toledo a Palermo, odierna C.so Vittorio Emanuele. Attraverso l’analisi dell’orientamento solare a due particolari albe solari dell’anno, emerge un’inconfutabile legame ante litteram tra il progetto vicereale di rifondazione urbana, com’è noto, attuato attraverso la rettifica dell’antichissimo Cassaro (deliberata dal Senato Palermitano nel 1567 e conclusa nel 1637 con il completamento delle porte urbiche “Felice” e “Nuova”) e le vicende attinenti il culto di Rosalia, Santa Patrona canonizzata da Roma nel 1630.

I valori azimutali di Via Toledo lasciano pochi dubbi: in linea con i dettami della politica controriformista dell’epoca, il Viceregno rifondò l’identità urbanistica di Palermo d’intesa con la “intellighenzia curiale” guidata dal cardinale Doria, allontanando definitivamente la città dal suo antico logos (legato ai culti di Janus e Tanit, impresso nell’originario orientamento del Cassaro) e sterzando il nuovo orientamento del primigenio asse urbano alla nuova “Rosa di Palermo”. La tesi, attraverso la metodologia analitica dell’archeoastronomia, trova un’affascinante quanto palese conferma nella criptica rappresentazione iconografica della esegesi di “Umbrat Fugas Veritas”, disegnata a Madrid da Manuel Calasibetta nel 1668: un’immagine criptica ben nota alla storiografia, per secoli rimasta in attesa della giusta chiave interpretativa, adesso fonte preziosa per la comprensione delle ragioni teologiche e simboliche alla base del progetto urbanistico del cosiddetto “Teatro del Sole” palermitano.

 

  • Jean Paul Barreaud – Santa Rosalia: una città alla ricerca della propria identità collettiva.

Saranno proposte considerazioni profane sulla costruzione del mito di Santa Rosalia nella Palermo della prima metà del Seicento, analizzando gli eventi che presiedono la sua elaborazione, il ruolo delle classi sociali elevate, il raffronto chiesa romana/società civile e i rapporti tra i vari ordini religiosi posti attorno alla figura del cardinale Doria.

  • Roberto Motta – Luce e tempo in alcune fabbriche medievali siciliane.

La mia presentazione nasce dall’incontro, del tutto casuale, con un libro: “Pietre Orientate “ di A. Di Bennardo, avvenuto una decina di anni addietro. Dalla lettura, invero per me molto ardua per via di una formazione del tutto diversa, è nata pian piano la curiosità verso i fenomeni di luce descritti da Di Bennardo, in prevalenza nel Duomo di Monreale.

La mia prospettiva di azione è stata prevalentemente fenomenologica e fotografica nell’intento di cogliere e fissare le taglienti traiettorie di luce. Nel tempo ho esteso l’osservazione a diverse chiese del Valdemone, della Calabria e successivamente della Lombardia, sollecitato, per le fabbriche di questa regione, dai recenti studi sul tema della luce e dell’orientamento in alcune chiese alto medievali dell’Italia centro–settentrionale (Incerti, De Blaauw). Nel corso della presentazione saranno quindi proposte immagini colte dalle chiese palermitane e del Valdemone, con riferimenti a fabbriche medievali lombarde la cui esplorazione ha svelato affascinati accadimenti.

  • Pippo Lo Cascio – Il nodo di Salomone in Sicilia.

Il “nodo di Salomone” è un simbolo magico-religioso che ha alle sue spalle una lunghissima storia, la cui data di origine, per il mondo occidentale, si deve ricercare in età romana e specificatamente in quella augustea. Assieme alla svastica è sicuramente la rappresentazione più diffusa, riprodotta in ogni latitudine e dalle diverse confessioni religiose. Il Nodo infatti è riconosciuto nell’iconografia europea come simbolo pagano, paleocristiano, ebraico, barbarico, medievale e rinascimentale, ed ha avuto particolare risalto anche nelle culture africane, amerinde ed asiatiche. La peculiarità del segno è quella di affascinare l’osservatore per l’armonia e la sinuosa composizione, per il cromatismo dei fasci concatenati e per le molteplicità d’uso; se poi s’indaga più attentamente, lo si può ritrovare nei luoghi più disparati: tra i corredi funerari barbarici, nei codici miniati trecenteschi e nei pavimenti musivi dei complessi (come ad esempio in quelli delle basiliche di Aquilea e Betlem).

A partire dall’XI secolo, si può costatare la presenza di “nodi salomonici” in un ventaglio di oggetti diversi da quelli sino ad ora considerati, ma pur sempre connessi all’ambito della sacralità, quali croci e reliquari. La particolare destinazione magico-funeraria ed il contesto figurativo dell’oggetto tendono a porre il “nodo” come simbolo di eternità dell’anima, legame con il divino, simbolo guaritore per ogni malanno e difensore dal maligno e contro ogni qualsiasi altra calamità proveniente dal mondo dell’occulto. Sebbene abbia avuto nel tempo tanto lustro e storia, oggi in Sicilia “u gruppu ri Salumuni” è pressoché un simbolo sconosciuto, anche se in alcuni quartieri cittadini spicca prepotentemente tra i tanti segni incisi in vecchie e cadenti pareti, che fanno da cornice a dediche alle divinità, a preghiere, ad autografi o a messaggi dedicatori lasciati da anonimi grafomani. Verosimilmente il simbolo del “nodo”, a causa di un prolungato isolamento, ebbe vita autonoma sino al definitivo declino in età ottocentesca.

 

SISTEMI COSTRUTTIVI STORICI

  • Rosa Carlino – La cupola a tutto cilindro di S. Maria dei Cerei. Tecniche di imposta della cupola in età antica.

Per la storia della critica la Chiesa di Santa Maria dei Cerei di Rometta costituisce una rara testimonianza “in pietra” dei passaggi diretti tra le tradizioni tardo-antiche romane e le identità cristiano-orientali forse impropriamente definite “bizantine”.

Dei molteplici aspetti tematici definenti l’identità del monumento romettese, il contributo analizza in maniera monografica quello tecnologico legato alla particolare metodologia costruttiva della cupola, cuore morfologico-spaziale della costruzione, comunemente ascritta alla tipologia di “Cupola a tutto Cilindro”.
La ricerca offre una piattaforma comparativa documentaria aggiornata con altri esempi architettonici omologhi d’area laziale (come il mausoleo della “Gens Ummidia” a Cassino e i capitolini Pantheon e Domus Aurea), oltreché sicula. L’obiettivo è contribuire al secolare dibattito storiografico attinente l’origine cronologica e funzionale del celebre quanto criptico monumento di Rometta, attraverso l’analisi dell’identità tecnologia di chiara matrice “antica” applicata a Rometta.

  • Antonella Mamì – Le tecniche costruttive storiche nel patrimonio siciliano: i sistemi in gesso.

Sino al secolo scorso gran parte degli edifici, se non la totalità, aveva forti rapporti con il contesto ambientale e territoriale in cui nasceva. Ci si riferisce ai fattori genetici, dal principio insediativo sino al materiale da costruzione e alle tecniche costruttive e di messa in opera. Fattori genetici che oggi possiamo individuare ed analizzare nei tratti connotativi del patrimonio architettonico e della sua più specifica fisicità. Nella contemporaneità, la nuova configurazione del mercato dei materiali da costruzione ha scisso questo nesso prima indissolubile.

In Sicilia, regione caratterizzata per estesi territori da affioramenti gessosi e dalle relative attività estrattive sin dalla preistoria, non poteva mancare la presenza, ancor oggi rilevabile, di un cospicuo patrimonio caratterizzato da elementi costruttivi con copiosa presenza, spesso anomala, di gesso a guisa di legante, conglomerato o pietra da costruzione. Questa presenza ha determinato, non poco, la messa a punto di tecniche costruttive specifiche e, addirittura, in alcuni ambiti, di veri e propri sistemi costruttivi in gesso. Ciò a rimarcare che in ogni luogo i materiali a disposizione per edificare hanno determinato le tecniche costruttive e i sistemi costruttivi, e hanno definito i caratteri non solo fisici, relativi alla costruzione, ma anche tipologici e morfologici.

I rapporti culturali ed economici con altri luoghi dalle medesime caratteristiche geologiche, quali la Spagna, hanno influito ulteriormente, grazie ai nessi con le maestranze e con i tecnici, sul consolidarsi di tali consuetudini e abilità.

Nella Sicilia, con particolare riferimento a quella sud-occidentale, ancora oggi ritroviamo numerosissimi edifici, taluni ancora integri, che ci testimoniano questi aspetti della cultura architettonica dell’isola ancor vivi sino all’inizio del secolo scorso. Dalle emergenze architettoniche e dai monumenti alle costruzioni rurali di una certa importanza, bagli e masserie, sino all’edilizia anche minuta dei tessuti urbani di numeri centri storici ritroviamo infinite testimonianze di questa cultura costruttiva che attende ulteriori disvelamenti e approfondimenti, ma, soprattutto, la messa a punto di un atteggiamento tecnico che dia luogo ad interventi di possibile recupero architettonico e strutturale.

 

CONCLUSIONI

 

  • MODERATORI

Maria Caltabiano, Daniele Castrizio, Luciano Catalioto, Alessandro De Angelis, Antonino Pinzone, Francesco Pira, Grazia Salamone, Salvatore Speziale, Anna Maria Urso.

  • ORGANIZZATORE Filippo Imbesi
    • COORDINATORE Luciano Catalioto (Università di Messina)
    • DIRETTA/STREAMING/CHAT: www.innovationtv.it

INFO: 3339694436 / 3933534143

  • Print
Computer Hope