Assistiamo ogni giorno a Tsunami di ogni genere, la nostra società è sempre più alla deriva. I giovani non hanno punti di riferimento forti e la crisi di valori è a caduta libera. A voler dare una interpretazione mistica e volendo citare le antiche scritture induiste, i Veda, l’umanità sta ancora vivendo nell’Era del Kali Yuga (età del ferro), un epoca oscura caratterizzata da conflitti di ogni genere, aridità e ignoranza spirituale, materialismo dalla quale ancora non siamo usciti (per entrare nell’era del Dyapara Yuga o età del bronzo).  Giusto come spunto di riflesione, su quanto stiamo vivendo, abbiamo voluto riportare due articoli pubblicati qualche tempo fà dal prof. Francesco Lamendola con i quali affronta due tematiche interessanti l’inerzia degli uomini (i dormienti) verso la propria crescita spirituale e l’atteggiamento nichilistico con il quale spesso affrontiamo il nostro quotidiano (una vita di merda). La chiave di lettura di questa crisi sociale, etica e spirituale è quella descritta dal prof. Lamendola? A ogni lettore le sue conclusioni.

   ROSARIO MESSINA

Nella religione induista, l’evoluzione della Terra è divisa in quattro ere, o Yuga, che significa appunto «era» o «periodo di tempo del mondo».

Queste sono:

  1. Satya Yuga o Krita Yuga, l’età dell’oro  (caratterizzata da armonia col piano divino);
  2. Treta Yuga, l’età dell’argento  (caratterizzata dalla capacità di annullare il tempo);
  3. Dvapara Yuga, l’età del bronzo  (caratterizzata dall’annullamento dello spazio);
  4. Kali Yuga, l’attuale età del ferro    (Era oscura caratterizzata da ignoranza e materialismo)

 

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Prof. FRANCESCO  LAMENDOLA

Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amm. comunali, per Ass. culturali come l’Ateneo di Treviso, l’Ist. per la Storia del Risorgimento; la Soc. “Dante Alighieri”; l'”Alliance Française”; L’Ass. Eco-Filosofica; la Fondazione “Luigi Stefanini”. E’ il presidente della Libera Associazione Musicale “W.A.Mozart” di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l’opera di J. S. Bach.

Viviamo in un mondo di dormienti che diventano feroci se qualcuno tenta di svegliarli

di Francesco Lamendola

Viviamo in un mondo di dormienti che diventano feroci se qualcuno tenta di svegliarli. Socrate credeva, ottimisticamente, che tutti gli uomini aspirino al bene e che, se compiono, invece, il male, ciò accade per ignoranza; ma basterebbe illuminarli sul loro errore, per consentirne il ravvedimento.

Sarebbe molto bello, e inoltre molto semplice, se davvero le cose stessero in questo modo; ma, purtroppo, vi sono numerosi indizi che suggeriscono la fallacia di una tale teoria.

La verità è che più si osserva il comportamento degli esseri umani, più si finisce per ammettere che la stragrande maggioranza di essi è formata da dormienti, che non desiderano destarsi dal proprio sonno voluttuoso, e nemmeno dai propri incubi; che vogliono continuare a dormire, a dispetto di tutti, anche se la casa in cui vivono sta prendendo fuoco; che non provano alcuna gratitudine nei confronti di coloro i quali cercano di destarli, ma, ben al contrario, nutrono nei confronti di costoro un odio implacabile, come se fossero i loro peggiori nemici, nel tempo stesso che onorano ed applaudono i malvagi pifferai che favoriscono i loro sonni e il loro sognare.

Per quella piccola minoranza di risvegliati, i quali cominciano a rendersi conto della natura illusoria del mondo in cui viviamo e del carattere risibile, se non addirittura pericoloso, della maggior parte delle cose che suscitano, nei più, compiacimento e desiderio di imitazione, il problema si pone in questi termini: che cosa fare in un contesto di sogno generalizzato, di odio nei confronti della verità, di rancore nei confronti di ogni voce che sia fuori del coro?

Come fare per evitare il treno che, guidato da un macchinista impazzito e carico di sonnambuli, sta per piombare addosso a coloro i quali sono desti, ma non possono agire sugli scambi, per deviarne la folle corsa?
E, ancora: è legittimo che il risvegliato cerchi di imporre ai dormienti la verità, se essi le preferiscono, invece, un mondo di menzogna; è giusto che cerchi di convincerli, di convertirli, di farli ravvedere, se ciò che essi vogliono è tutt’altro? …

Certo, il giardiniere è uso a strappare le erbacce le quali invadono il suo giardino; ma il mondo non è un giardino, e ogni visione del mondo ha diritto di sussistervi: anche quella che appare manifestamente erronea. Sopprimere le visioni erronee non è compito del risvegliato; ma, semmai, offrire a tutti gli strumenti per valutare che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato: dopo di che, ciascuno deve assumersi la responsabilità del sentiero che intende seguire.
Nessuno può venire costretto ad essere virtuoso; nessuno può venire costretto a cercare la verità, se non la desidera e se ad essa preferisce la menzogna.

D’altra parte, è certo che, a quel punto, si pone concretamente il problema della sopravvivenza di colui il quale ritiene di essersi destato, e che si trova continuamente esposto agli urti e alle aggressioni degli altri, ossia dei dormienti: e le aggressioni più minacciose sono proprio quelle di quei dormienti che sono stati destati a forza per essere illuminati.
È una questione di sopravvivenza.

La storia ci offre sin troppi esempi di saggi, i quali sono stati crocifissi da una moltitudine che non voleva essere illuminata, che desiderava continuare a vivere nelle tenebre. E la moderna società di massa è la società dei ciechi e dei dormienti per eccellenza: è il vertice dell’attuale Kali Yuga, della Età Oscura nel ciclo della vicenda cosmica.

A meno che voglia andare incontro al martirio, dunque – e vi sono, indubbiamente, degli ideali che meritano di essere perseguiti fino al martirio – il risvegliato è indotto a interrogarsi sul senso del suo vivere nella società, e sulle modalità con le quali deve gestire il suo rapporto con il prossimo.

In effetti, nessuno è disposto a modificare la propria concezione del mondo, o a lavorare seriamente su se stesso, se non sulla base di una profonda e sentita esigenza interiore; e quest’ultima non potrà mai venire da un agente esterno, se non in coincidenza con un impulso interno.

Quel che vogliamo dire, è che le persone sono disponibili ad affrontare un salto qualitativo nella propria evoluzione spirituale, solo se, e quando, decidono di prendere coscienza del problema; ossia, in genere, quando si rendono conto, non solo di essere insoddisfatte della propria vita attuale – ciò che accade a molti -, ma di essere disposte a mettersi in gioco per uscire dal punto morto in cui si trovano.
In quella fase, e solo in quella fase, un evento esterno può fungere da detonatore della loro crisi benefica e affrettare una presa di coscienza: può essere l’incontro con una persona buona e saggia, o con un libro, o con una situazione inconsueta e stimolante (magari anche in apparenza negativa, come una malattia o il distacco da una persona cara).

Viceversa, se il momento non è giunto e la persona non è ancora pronta, nessun saggio, nessun libro e nessuna situazione stimolante potrebbero innescare una evoluzione spirituale; come dice il Libro dell’Ecclesiaste, vi è un tempo per ogni cosa: per parlare e per tacere, per dormire e per vegliare, per vivere e per morire. E, così come la natura fisica non fa salti, la stessa cosa può dirsi per la vita dell’anima: il suo processo evolutivo non può essere forzato.

Questo, difatti, è l’errore di fondo di tutte le rivoluzioni politiche e sociali: pensare che il mondo possa diventare migliore, una volta che si sia compresa una formula e la si sia messa in pratica, indipendentemente dalla vita interiore delle persone. Ma se non c’è una evoluzione spirituale, nessuna formula, per quanto perfetta in teoria, potrà rivelarsi capace di rendere il mondo migliore; al contrario, la storia è piena di esempi di formule ideali che si sono trasformate in terribili strumenti di oppressione e di malvagità, trovandosi nelle mani di persone che non avevano saputo compiere alcuna evoluzione interiore.

Per la persona che sia disponibile ad aprirsi, a mettersi in gioco, a evolvere spiritualmente, la vita offre infinite occasioni di miglioramento, purché le si sappia vedere.

Un disturbo fisico, ad esempio, è certamente un segnale: un segnale che il nostro corpo ci manda, e che contiene informazioni preziose circa la disarmonia presente nella nostra vita. In ultima analisi, ogni disturbo fisico è riconducibile alla dimensione spirituale; ed è veramente sconcertante vedere come la grande maggioranza degli esseri umani si disinteressa del problema, sforzandosi di mettere a tacere il sintomo – ossia il campanello d’allarme -, invece di andare alla ricerca del problema profondo che il corpo ha segnalato.

Peggio ancora: se il disturbo persiste, moltissime persone si affidano ciecamente a farmaci e a medici, come se farmaci e medici potessero sostituirsi alla doverosa presa di coscienza del proprio problema; e le stesse persone che delegano in questo modo la salvaguardia della propria salute, firmando una cambiale in bianco nei confronti dell’apparato sanitario ufficiale, sono poi quelle che esigono di occuparsi in prima persona, e fin nei minimi dettagli, di cose assolutamente banali e secondarie, come la scelta del nuovo modello di automobile da acquistare o l’intervento di chirurgia estetica per aumentare le dimensioni del seno.

Un altro esempio di questa tendenza a delegare le questioni davvero rilevanti ad agenzie esterne, è offerto dalla politica. La grande maggioranza delle persone non si informa adeguatamente di ciò che attiene a questa sfera e preferisce firmare una cambiale in bianco ai partiti, i quali mandano in Parlamento i loro uomini di fiducia, una legione di «yes-men» dalla schiena flessibile, fedeli esecutori delle direttive ricevute dalle rispettive segreterie.

Un discorso analogo si può fare per la pubblica amministrazione. Il risultato è che i nostri sindaci e assessori, che si muovono nella sfera del quantitativo e di ciò che ha un alto grado di visibilità (indipendentemente dalla sua efficacia), difficilmente riescono a concepire delle soluzioni innovative per i problemi che devono affrontare.
Un pezzo grosso dell’amministrazione provinciale, ora divenuto ministro, qualche tempo fa propose di porre rimedio all’alto numero di incidenti mortali del sabato sera, facendo tagliare migliaia di platani lungo uno storica strada provinciale: come se il problema fosse quello dei platani (i quali, comunque, hanno anch’essi il diritto di vivere) e non quello di uno stile di vita sbagliato e di uno scarso senso di responsabilità da parte di molti giovani.

Ma torniamo al problema del risvegliato che deve confrontarsi, tutti i santi giorni, con una folla di sonnambuli, i quali si muovono pericolosamente e reagiscono in maniera aggressiva se qualcuno tenta di destarli e di responsabilizzarli.
Julius Evola suggeriva che, in tempi di Kali Tuga, l’unica cosa da fare è imparare a «cavalcare la tigre»: ossia, anziché opporsi frontalmente ad una situazione negativa generalizzata, sfruttare la corrente, per procedere in maniera da non ricevere troppi danni e, addirittura, per riuscire a volgere a proprio favore le stesse caratteristiche di quella situazione, allo scopo di preservare il bene della propria interiorità.
Sia come sia, che impari a cavalcare la tigre, oppure che si abitui ad assecondare la corrente, il risvegliato ha la piena consapevolezza di non essere un superuomo e di non poter modificare, egli solo, una determinata situazione, diffusa nella società in cui egli si trova a vivere; e, inoltre, che non sarebbe saggio cercar di forzare l’evoluzione spirituale degli altri esseri umani, per le ragioni che abbiamo detto più sopra.
Che cosa dovrà fare, allora?
È molto semplice.

Primo, dovrà proseguire incessantemente a lavorare su se stesso: perché la propria evoluzione spirituale è un compito che non finisce mai, e che si rivela più impegnativo, mano a mano che una persona vi si addentra.
Secondo, offrire – nella misura delle sue possibilità – una diversa prospettiva a coloro che gli stanno intorno e che gli sembrano aperti ad un cambiamento, ma senza illudersi di vederli cambiare dall’oggi al domani e senza attendersi gratitudine, né amicizia; ma, al contrario, mettendo in conto un certo grado di incomprensione, se non addirittura di aperta ostilità.

In ogni caso, egli sa che le cose accadono quando è giunto il tempo in cui devono accadere: non un minuto prima, né un minuto dopo.
In ciò consiste l’armonia del tutto: che ogni cosa è come deve essere; e che quelle cose, le quali ci appaiono negative, in realtà sono tali solo nella misura in cui noi non siamo in grado di farne una occasione di crescita e di perfezionamento.

In altre parole, la disarmonia è in noi, non nel creato; è nostra la responsabilità di non essere abbastanza evoluti da gestire in maniera responsabile e proficua le occasioni che la vita ci offre, per quanto esse possano presentarsi, talvolta, nella rude veste di eventi dolorosi.
Il risvegliato, pertanto, è colui che, ad un certo punto, decide di cogliere le occasioni che la vita gli offre per riprendere possesso di sé, per tornare ad essere il vero protagonista del proprio volere e del proprio agire. È colui che decide di non dare più ad altri la delega in bianco di ciò che lo riguarda in prima persona; di ascoltare i segni e di imparare a riconoscere gli avvertimenti.

Il mondo è pieno di segni, la vita è piena di avvertimenti. Si può dire che non vi è persona, situazione o evento che noi incontriamo nel nostro cammino terreno, che non costituiscano altrettanti segni, indicazioni, suggerimenti o stimoli.

Tutto ci parla, se siamo disposti ad ascoltare; ma, naturalmente, per saper fare questo, bisogna prima imparare a fare silenzio. Troppi rumori inutili, fuori e dentro di noi, ci impediscono di udire l’essenziale; la cacofonia dei rumori inutili e disarmonici ci impedisce di udire e di godere del magnifico concerto dell’Essere.
Finché continuiamo a dormire, i nostri orecchi sono chiusi all’armonia dell’Essere e i nostri occhi sono chiusi al suo splendore.
Impariamo ad aprire occhi e orecchi, cominciamo a destarci: ce n’è, di giorno, che ancora deve sorgere, per noi che siamo immersi nel sonno.
L’unica luce del giorno è quella che ci trova ben desti, pronti e desiderosi di accoglierla in noi.

 

 

 

«Una vita di merda»

di Francesco Lamendola

È una delle risposte più frequenti che ci tocca sentire, quando domandiamo a un amico, che non vedevamo da un po’ di tempo, come gli vanno le cose.
«Cosa vuoi che ti dica? Faccio una vita di merda, questa è la verità…», ti risponde quello, stringendosi nelle spalle con aria eloquente, cioè totalmente sconsolata.
Fare una vita di merda…
Decisamente, non si può dire che sia il massimo; eppure c’è un sacco di gente che vive così, in uno stato di tranquilla disperazione: un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, un mese, un anno, un decennio dopo l’altro.
Forse anche tu, gentile lettrice, e tu, caro lettore, vi sentite un po’ così; solo che non lo ammettereste mai davanti a tutti; ma a tu per tu con un’amica o un amico di vecchia data, allora è un’altra cosa: allora si possono anche lasciar cadere le maschere e mostrare il volto triste del pagliaccio che ha voglia di piangere, anche se gli altri si aspetterebbero le sue risate.
Fare una vita di merda…
Certo, si tratta di un’espressione forte; non la si potrebbe adoperare nella buona società, fra persone bene educate; non la si potrebbe pronunciare a voce alta in un ristorante di lusso o nella hall di un elegante albergo a cinque stelle: subito molte paia d’occhi si volgerebbero, con aria tra scandalizzata e infastidita, verso il plebeo bestemmiatore.
Ad un tavolo d’osteria, potrebbe andare già un po’ meglio; eppure perfino lì ci sarebbe qualcuno che si sentirebbe urtato, forse un po’ offeso: anche perché tutti si sentirebbero almeno un po’ coinvolti, almeno un po’ compagni di sventura.
Ci sarebbe poco da stare allegri: perché quel disgraziato del vicino di tavolo, quello che ha detto a voce alta: «Sto facendo una vita di merda», riuscirebbe a far sentire tutti quanti a disagio, proclamando senza peli sulla lingua una scottante verità che riguarda non certo lui soltanto, ma anche parecchi altri che fingono di darsi un contegno.
Che cosa si vuol dire, infatti, allorché si afferma che si sta facendo una vita di merda?
Vuol dire che si sta facendo una vita spenta, grigia, del tutto spogliata della dimensione della speranza; una vita frustrante, fallimentare, amara, simile a un lungo stradone d’asfalto, senza mai un albero, senza mai un fiore: solo il calore torrido dell’estate, la polvere e l’arsura; e il cielo come velato dalla foschia, dalla pesante cappa di afa, che non lascia immaginare che possa mai piovere per chissà quanti giorni ancora, che non giungerà mai un poco di ristoro e di frescura.
Vuol dire avere ripiegato tristemente i propri sogni e averli chiusi a chiave nel cassetto; aver smesso da un pezzo di provare stupore, serenità, gratitudine; vedere sempre tutto in una luce triste, monotona, soffocante; non credere più a niente e a nessuno, non sperare più niente, non aspettarsi più nulla dalla vita, dal domani…
Vuol dire sentirsi sopraffatti dalla stanchezza, dallo scoraggiamento, dal senso di impotenza e di fragilità; non scorgere nemmeno un indizio che faccia aspettare con fiducia mattino che dovrà sorgere; essere sempre immersi nella notte e andare a tentoni per le strade, come ubriachi, come ciechi, sbattendo continuamente da ogni parte, senza riuscire mai a far tesoro degli scivoloni, delle cadute.
Vuol dire trovarsi senza fiato, come un alpinista che non ce la fa più a respirare e che ha paura di andare avanti, ma anche di tornare indietro e che quindi si sente bloccato, perduto, terrorizzato; vuol dire sentirsi sopraffatti dalle smisurate aspettative degli altri, dalle loro incessanti richieste, dal giudizio impietoso che si può leggere nei loro sguardi, anche quando essi credono di mostrarsi compassionevoli e solidali.
Vuol dire alzarsi il mattino e, guardandosi allo specchio, avere voglia di chiudere gli occhi, di tornare sotto le coperte, di non doversi più confrontare con la propria immagine.
Vuol dire non avere più il coraggio di fissare il proprio sguardo e d’incontrarlo così stanco, così diverso da quello di un tempo.
Ancora.
Una vita di merda è anche una vita che è sfuggita al nostro controllo, ai nostri legittimi desideri, alla nostra autenticità; è una vita in cui siamo pressati e oberati da necessità contingenti, da preoccupazioni fastidiose, ma anguste, da problemi di corto respiro, i quali, nondimeno, tengono impegnate le nostre energie migliori e ci sottraggono il tempo e la serenità necessari per dedicarci veramente a noi stessi, per fare le cose che ci farebbero star bene.
Specialmente per le donne e gli uomini di mezza età, stretti fra le loro responsabilità di genitori e quelle di figli con genitori anziani, si dà una intera stagione della vita – diciamo fra i quarantacinque e i cinquantacinque anni, più o meno – in cui impegni familiari e sociali ed esigenze quotidiane di  ordine pratico tendono a farsi particolarmente gravosi, particolarmente stressanti, particolarmente ingrati.
E a tutto ciò si aggiungono la fatica di un lavoro non sempre gratificante e, forse, anche precario, o sul punto di scomparire, con le conseguenti difficoltà economiche e psicologiche; la stanchezza accumulatasi in anni di continuo surmenage, magari senza neanche uno straccio di vacanza da chissà quanto tempo; per non parlare di problemi particolari, come un figlio o una figlia difficili, ribelli, patologicamente svogliati e immaturi, forse dediti agli stupefacenti; un marito o una moglie depressi, esauriti, ossessionati da disturbi mentali, o semplicemente (si fa per dire) perennemente ansiosi, aggressivi, intrattabili; un parente affetto da qualche sindrome consistente di natura fisica, costantemente bisognoso di assistenza…
Certo, qualcuno sembrerebbe più fortunato di qualcun altro.
Almeno in apparenza, vi sono persone che non sembrano mai sfiorate da grossi problemi, che godono sempre di ottima salute, che hanno famiglie felici e armoniose, dei figli modello e dei genitori in perfetta salute, anche nell’età avanzata; persone che sembrano baciate in fronte da qualche dio benevolo; .
Viceversa, si vedono pure individui perennemente perseguitati da ogni sorta di difficoltà, angustia e preoccupazione, che collezionano disgrazie a catena, che passano incessantemente da un problema all’altro, da una calamità all’altra., come se un destino maligno li inseguisse con diabolico accanimento: come nel caso di una madre che, dopo aver perso il figlio ventenne in uno dei tanti, troppi incidenti che accadono sul lavoro, rimane anche vedova per un improvviso infarto che ha colpito il marito.
Siamo però sicuri che non si tratti solo di apparenza?
Chi siamo noi per giudicare, così, dall’esterno, quando una vita umana è felice e quando non lo è, avendo come unici indicatori gli eventi esterni che l’accompagnano?
Non è forse vero che si può essere infelici e disperati anche se tutto, nella propria vita, sembra andare a gonfie vele; ed essere, all’opposto, sereni e in pace con se stessi e con il mondo, anche in mezzo alle più gravi difficoltà?
Ma queste, si dirà, sono le eccezioni: le eccezioni che confermano la regola.
E sia; tuttavia, proviamo a domandarci: da che cosa dipendono tali eccezioni, che cosa ci suggeriscono?
Non stanno forse a indicare che, in gran parte, il nostro star bene o il nostro star male dipendono dal modo in cui noi affrontiamo i fatti della vita, in cui li accogliamo e li rielaboriamo, prima ancora che dai fatti in se stessi?
Che cosa sono, poi, a ben guardare, i fatti in se stessi, i cosiddetti fatti oggettivi?
Il minimo che si possa obiettare alla loro pretesa di oggettività è che noi, dei fatti in se stessi, poco o nulla sappiamo; i fatti che conosciamo, che sperimentiamo, che viviamo, non sono in alcun modo qualche cosa di oggettivo, che avviene fuori di noi, ma qualche cosa che fa tutt’uno con la nostra coscienza, con la nostra consapevolezza.
Per esempio: una malattia è un fatto in sé e per sé, un fatto oggettivo?
No di certo, poiché noi possiamo osservare che la stessa malattia produce effetti molto diversi, sia fisicamente, sia psicologicamente, sia spiritualmente, su due persone diverse.
Di più: possiamo osservare che la stessa malattia produce effetti diversi sulla stessa persona, qualora si presenti in due momenti diversi della sua vita e specialmente in due momenti diversi del suo percorso interiore.
E non è detto che si tratti necessariamente di effetti negativi!
Certo, una malattia porta dolore, solitudine, senso di impotenza; e nondimeno: quante splendide fioriture spirituali sono avvenute, sotto la spinta benefica di una malattia!
Quante persone, nella malattia e grazie alla malattia, hanno riscoperto l’amore delle persone care, la bellezza del mondo, la gioia infinita delle piccole e piccolissime cose: il canto di un usignolo, lo sbocciare di un ciuffo di primule, l’odoroso vento di marzo; cose che, nella salute (che diamo per scontata, anche quando non ce la meriteremmo, perché trattiamo male il nostro corpo, la nostra mente e la nostra anima), diamo (anch’esse!) per scontate!
Già questa prima, semplice riflessione: che non sempre le avversità vengono per farci del male, né la prosperità favorisce necessariamente il nostro autentico bene, dovrebbe introdurre un elemento rasserenante nella nostra percezione di ciò che, nella nostra vita, tendiamo a giudicare – e pertanto a vivere – come negativo o, all’opposto, come positivo.
Il secondo elemento di rasserenamento, che costituisce la generalizzazione del primo, può venire dalla riflessione, già accennata, che è molto difficile, se non impossibile, giudicare cosa sia positivo e benefico nella nostra vita, e che cosa sia negativo e malefico, guardando le situazioni umane dall’esterno.
La vita, infatti, ci presenta continuamente delle occasioni: tutto può essere occasione sia di bene che di male; ciò dipende dalla nostra maturità spirituale, dall’uso che siamo capaci di fare, per così dire, degli elementi di fortuna o di sfortuna che ci si presentano.
Vincere una grossa somma di denaro alla lotteria è una fortuna? Dobbiamo rallegrarcene incondizionatamente, senza valutare la possibilità che tutto quel denaro, ottenuto di colpo e senza la fatica (e il merito personale) del lavoro, possa indurci a farne un cattivo uso e a contrarre cattive abitudini, comportamenti e modi di pensare che non favoriscono affatto la nostra crescita interiore, ma, semmai, la nostra pigrizia e peggio, facendoci così regredire?
Il terzo elemento rasserenante dovrebbe venirci dalla consapevolezza che noi possediamo, perché ci sono stati dati (se poi non sappiamo adoperarli, questa è un’altra cosa), gli strumenti necessari per fare della nostra vita una esperienza valida, entusiasmante, meritevole di essere esperita, nonostante tutte le difficoltà, le cadute e le sofferenze (ma, talvolta, proprio in grazia di esse!), pur nella consapevolezza della sua finitezza, della sua imperfezione, della sua labilità, che rimandano ad un’altra dimensione del nostro essere, libera dai limiti di quella presente.
Ci sono dei momenti in cui tutti ci sentiamo dei poveracci, delle foglie al vento, degli operai inutili; in cui abbiamo la sensazione di non farcela più o che non valga la pena di continuare ad impegnarsi, a lottare, a soffrire.
Questo è normale: ci sono passate le anime più grandi; perché non dovremmo passarci anche noi, uomini e donne comuni?
Ma sono, appunto, momenti; e sono anch’essi utili e preziosi, perché costituiscono il migliore antidoto alla nostra presunzione, alla nostra smania di onnipotenza.
Quanto al pensare che la nostra vita faccia schifo, questa è un’altra cosa.
Non c’è niente che non vada nella vita, salvo il fatto che noi non sempre sappiamo essere all’altezza del compito che ci è stato affidato; vale a dire che non sempre siamo all’altezza di noi stessi, della nostra parte più vera e profonda.
Perciò, su la fronte e dritta la schiena: la vita è fatta per i coraggiosi e per la anime attive e assetate di verità; non per i poltroni, i vittimisti e i paurosi.
Ce n’é, di vita, che dobbiamo ancora imparare a vivere…
Per chi ha appena aperto gli occhi, la luce che vede è sempre quella di un meraviglioso mattino.

Di Dott. Rosario Messina

Email: direttore@siciliafelix.it

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