Taormina – Di siculo non ci ha proprio nulla. Nelle viscere, nel sangue, scorre solo vino dei Castelli Romani. Romaneschi per dirla tutta. Ma il suo cognome, ironia della sorte, è Mannarinu… Anzi, pardon, Mannarino, classe 1979 e cresciuto tra le case popolari della Roma di Rino Gaetano, tra manovali, muratori, disoccupati, gente di strada e del sottoproletariato urbano, prostitute che per un tozzo di pane sarebbero stati in grado di finire tra le grinfie dei borghesotti capitalisti raccontati da Pierpaolo Pasolini in “Ragazzi di Vita”. E tra questi ragazzi, quelli con cui Pà giocava a pallone e sceglieva come personaggi-macchiette delle sue pellicole cinematografiche, poteva esserci pure lui. Sempre se fosse nato negli anni ‘60. Perché Alessandro Mannarino, di mestiere cantautore rinnovato e attento nella descrizione di uomini, donne, ubriaconi che vivono atmosfere piene di sofferenza e di sopravvivenza stentata (oltre che di semplicità che, alle volte sfocia in frivolezza ma anche in un po’ di pudore) corrisponde quasi perfettamente al Ninetto Davoli della situazione, e – come detto prima – al menestrello di Crotone. Quel Rino calabrese a cui l’artista laziale somiglia davvero tanto ma da cui si distacca, non tanto per le tematiche approfondite nelle sue canzoni, quanto per la vastità del repertorio musicale (che spazia dal rock-folk andando a finire alla world music, attraverso ritmi brasiliani) che ieri sera al Teatro Antico di Taormina, ha ancora una volta scaldato i motori della spensieratezza, trasformandola in qualcosa di leggero e allo stesso tempo profondo. Una tappa, l’ultima dell’ “Apriti Cielo Tour 2017”, che ha avuto il sapore della fine di un’avventura guarda caso nella Città del Centauro. A metà strada tra Scordia e Messina. Due centri, dove si è concretizzata la vera e propria genesi dell’ultimo disco, intenso e controcorrente nella sua genuina verità e che, nonostante la grande distanza con la cultura dell’Italia centrale, trattiene molta Sicilia dentro, visto che “l’album è stato registrato – come sostenuto durante il concerto dal Manna – al Sonora Studio di Vincenzo Cavalli, con la cooproduzione del cantautore messinese Tony Canto”. Un artista, questo, che a metà serata ha varcato la soglia del palco e si è unito a Mannarino in un’estasi fatta di emozioni, brividi fino al midollo e un su e giù di diaframma, grazie anche al virtuosismo dei dodici elementi che hanno composto l’ossatura dello spettacolo. Con Mauro Refosco alle percussioni, Renato Vecchio e Antonio Vitali ai fiati, Puccio Panettieri alla batteria, Alessandro Chimenti, Giovanni Risitano, Paolo Ceccarelli alle chitarre, Niccolò Pagani al basso e contrabbasso, Mauro Menegazzi alle tastiere e fisarmonica, Simona Sciacca alla voce, e Lavinia Mancusi voce e violino, lo show mannarinese ha preso più consistenza, con il cambio di alcuni arrangiamenti, l’eliminazione di qualche lento e uno spazio concesso a brani più ritmati, ispirati ai suoi viaggi che lo hanno condotto ultimamente alla ricerca di nuovi stimoli e soprattutto di contaminazioni musicali sudamericane. Tutto con l’intento di unire la scrittura cantautorale a suoni che invitino a ballare e che ricordano vagamente tammuriate meridionali. E tale obiettivo, almeno a Taormina, è stato pienamente raggiunto, con più di 4.000 mila spettatori, spinti ad un vitalismo poco ortodosso e caratterizzato da un sound internazionale, tipico di Bahia, dell’Africa e di New Orleans e che attinge al rock, al folk, al romanesco e al blues. In sintesi “una samba triste che danza – come diceva Vinicius De Moraes – e cerca la bellezza con dolce disperazione; un’allegria non vuota, bensì piena, che sceglie il bello come possibilità di salvezza”. Sta tutto qui il messaggio dell’ “Apriti Cielo”, che rappresenta un continuum con il disco precedente, “Al di là del Monte”, all’interno del quale il romano provincialotto ha estratto come da un cilindro, il cappello della razionalità e quello dell’onirico in perenne lotta tra di loro. Una sorta di scontro apparente, addolcito da “Un’estate”, “Roma”, “Frontiera”, “Babalù”, “Scendi giù”, “Animali”, “Arca di Noè” e “Tevere Grand Hotel” solo per citarne qualcuna; tutte tracce nuove di zecca, che Mannarino ha proposto nel corso di circa 3 ore di consapevole consapevolezza che “la musica è un mezzo che serve a comunicare con il corpo e arriva prima al corpo e poi alla testa”. Basta, ovviamente, che il “Me sò mbriacato” non vada ad intaccare il “Bar della Rabbia” e “Maddalena”, che, invece di essere madre, martire o vergine, è una donna che sfida Dio per la carne: l’amore e la passione che sente”. Un po’ come “Mary lou”, bagascia che vende l’amore a tutti i marinai del porto, e la cui storia raccontata da Alessà con costrutti “minimalisti”, sembrerebbe ricordare la “Bocca di Rosa” di Fabrizio De Andrè. Descrizioni dunque. Isole di fronte agli schemi precostituiti che a Mannarino non entusiasmano per niente e da qui si è distaccato, fuggendo da una società compromessa e che – come detto da lui stesso – impone un’indagine dettagliata sulla propria identità”. Qualcosa che si può ottenere solo scrutando l’immagine di un uomo e di una donna che sfuggono alla monotonia e si ritrovano da soli sulla cima di una montagna. Una situazione che si palesa proprio alla fine, come a significare che “ciò che resta siamo noi, esseri umani…”. E proprio al riguardo il 38enne si dipana in un discorso approfondito, sbandierando a metà concerto una bandiera realizzata con tante porzioni di stracci che “seppelliscono”, per così dire, l’identità tricolore. Quella italiana che dovrebbe essere aperta ad influssi variegati, senza la necessità di costruire muri ma, bensì distruggendo quelli che esistono già. Concetto che il Mannarino, versione taorminese, esprime in modo molto raffazzonato, complice un po’ di emozione mal trattenuta, quando si spinge ad esaltare la Cultura classica e ovviamente l’agorà, la democrazia e la forza delle parole.
Enrico Scandurra